Lettera a tre mogli

Lettera a tre mogli

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La Lab80 continua con la sua iniziativa “Happy Returns!”, recupero di classici restaurati riproposti in sala. Stavolta è il turno di un capolavoro di Joseph L. Mankiewicz, Lettera a tre mogli, opera di straordinaria modernità che sotto le vesti di commedia assume i contorni di racconto puramente novecentesco.

L’immagine mancante

In una piccola cittadina della provincia americana Addie Ross è una donna affascinante e da tutti ammirata. È anche l’ossessione di tre mogli, variamente fragili e insicure, che temono il passato dei rispettivi mariti, tutti e tre legati da esperienze, ammirazione e affetto per Addie. Un sabato pomeriggio le tre donne si accingono a ritrovarsi per una gita in barca e ricevono una lettera da Addie in cui la donna le mette al corrente di essere fuggita col marito di una di esse. Per le tre mogli è l’inizio di una tormentosa riflessione sulle proprie esistenze e scelte. Di Addie, intanto, udiamo solo la voce narrante, protagonista fisicamente assente del film… [sinossi]

Il racconto fantasmatico, la smaterializzazione della realtà narrata, l’assenza dell’oggetto, scomposto e diluito nella percezione del soggetto. Lettera a tre mogli (1949) di Joseph L. Mankiewicz è innanzitutto un saggio modernissimo sul racconto novecentesco, trasportato in ambito di cinema e legato agli strumenti precipui del mezzo. Riproposto adesso nelle sale italiane grazie all’iniziativa “Happy Returns!” della Lab80, il film è innanzitutto una commedia cinica e crudele alle quali Mankiewicz abituerà pubblico e critica nel corso della sua carriera. Affilato nel narrare la provincia americana e nel guardare con una certa ferocia alle debolezze del mondo femminile, l’autore si dedica in realtà a una forma di racconto decisamente coraggiosa e sperimentale nell’ambito del cinema americano del tempo.
Più si guarda, si torna ad analizzare, si mette sotto la lente d’ingrandimento, e più il cinema di Mankiewicz appare un oggetto estraneo nel mondo espressivo di Hollywood, al quale è apparentato solo esteriormente. Solitamente sceneggiatore dei propri film, Mankiewicz ha composto a poco a poco una filmografia del tutto personale, fortemente coesa sotto il profilo espressivo e coerente con una propria “idea del cinema e del mondo”.
Ancora una volta va di scena il teatro sociale, il gioco di ruoli e di maschere, il fardello delle convenzioni e dei comportamenti dettati da precise finalità: l’incapacità di parlare a chiare lettere, di mettere nero su bianco le proprie debolezze. Di più: in questo film seminale Mankiewicz compie un affondo nelle proprie protagoniste di rarissima raffinatezza, dando vita a un’opera che, se ricorda più di tutto la commedia, si piega in realtà alla natura prismatica dell’imprevedibile umanità. Affidato alle solide spalle di un cast d’attori di perfetta efficacia, Lettera a tre mogli si configura come un’indagine intorno a realtà e racconto, a soggetto e oggetto, in cui il disvelamento delle maschere sociali ricopre un ruolo fondamentale.

Stavolta il teatro sociale coinvolge una piccola cittadina della provincia americana, in cui domina incontrastata la fascinosa Addie Ross, voce narrante del film (affidata a Celeste Holm) di cui non vedremo mai il volto. E’ lei, protagonista invisibile, a dipanare le vicende di tre coppie di coniugi variamente inquiete. E’ lei il tormentoso termine di confronto di tre mogli fragili e insicure per ragioni diverse, che in città e con i propri mariti si sono trovate a misurarsi con l’ingombrante modello di una donna tanto perfetta e affascinante. È lei, in ultima analisi, la disincarnazione più compiuta dell’istanza narrante, che gli strumenti del cinema permettono di ridurre a pura voce. La voce di Addie Ross introduce lo spettatore alla cittadina e ai suoi protagonisti con atteggiamento vagamente sprezzante e distaccato, per poi guastare la giornata alle tre mogli protagoniste in scena, sue amiche a varie gradazioni di ipocrisia, inviando loro una lettera in cui dichiara di essere fuggita con il marito di una di esse. Le tre donne ricevono la missiva un sabato pomeriggio, quando si stanno recando a una gita in barca, e per loro la giornata si trasforma in un calvario di riflessioni sul proprio passato, sulle proprie fragilità e sul rapporto con i rispettivi mariti.

Mankiewicz mostra innanzitutto grande modernità nella costruzione del racconto, composto su un’esponenziale scala di scatole cinesi. La voce di Addie Ross contiene l’intero racconto; a sua volta la voce della donna si concretizza in parte anche attraverso la lettera, che scatena una serie di tre flashback in cui le mogli ripensano ciascuna un brano significativo della loro esistenza. Lo scioglimento avviene di nuovo sul terreno del “presente”, ma implicitamente ancora contenuto nel racconto dalla viva voce di Addie Ross, la quale (genialità del finale) prende forma attiva nell’intreccio soltanto nell’ultima inquadratura, rompendo un bicchiere sul tavolo con stizza ma agendo come un fantasma. Non si vede la mano, il suo corpo, niente. Solo un bicchiere che si rompe come frantumato da un’entità invisibile. E in chiusura, Addie Ross ci dà la buonanotte.
Se nel mondo espressivo di Mankiewicz l’oggetto è illusione e solo il soggetto ha residenza, Lettera a tre mogli si spinge ancora più in là fino alla dissolvenza del soggetto stesso. Nel non dare mai immagine e corpo al personaggio di Addie Ross, Mankiewicz opera una totale e inquieta disintegrazione dell’istanza narrante, finendo per confinare lo stesso intero racconto nei territori dell’illusione. È l’illusione dell’oggetto, la fine del racconto rassicurante nella sua autoconclusività: è il racconto novecentesco, con tutti i suoi dubbi e le sue ambiguità, riportato nella dimensione-cinema. Ancora: la disincarnazione di Addie Ross aggiunge inquietudine al tema del doppio, rimuovendone l’immagine e rendendola quindi ancora più schiacciante per chi la subisce. Le tre donne protagoniste sanno che per ragioni diverse Addie ha ricoperto un significato importante in passato nelle vite dei loro mariti, e di conseguenza il fascino e la perfezione di Addie si trasforma in rovello nevrotico all’interno di un confronto inevitabilmente fallimentare, poiché Addie non è altro che la non-immagine delle loro insicurezze.

Sotto le fattezze di una commedia narrativamente moderna e spregiudicata Mankiewicz compie in realtà un sottilissimo lavoro dissacrante nei confronti delle certezze americane, corrodendo l’immagine brillante e vincente, fatta di esseri umani ben compresi di sé, con ampie dosi di nevrosi e fragilità. Oltreché con il modello inarrivabile di Addie Ross, le tre donne si scontrano tormentosamente con i fondamentali della cultura americana: la moglie perfetta e il complesso provinciale (Deborah), l’affermazione di se stessi e la società dello spettacolo (Rita), il denaro (Lora Mae). A varie gradazioni il denaro, l’ambizione e la tensione al riscatto sociale scorrono in realtà a tutti i livelli del racconto, innervando rapporti di forza in ogni singola coppia raccontata, ma ancor più indicativo appare il ricorrere in scena di strumenti di riproduzione della realtà, dal grammofono, alle fotografie, alla decisiva radio.
In primo luogo è la stessa Addie Ross, assente in scena, a farsi presente soltanto tramite riproduzioni di se stessa (negate però allo sguardo dello spettatore) o oggetti metonimici. Secondariamente, tutto il brano dedicato al personaggio di Rita si trasforma anche in riflessione sulla radio, presa a modello di un generale abbassamento delle forme d’arte che porta con sé, tramite la costante e quotidiana produzione di fruibile materiale finzionale, una progressiva smaterializzazione della realtà. In tale processo Mankiewicz sembra inserire anche il cinema stesso, capace per l’appunto di ridurre l’essere umano a pura voce, istanza narrante sufficiente a se stessa pur senza apparire in scena.
Cosicché Lettera a tre mogli si profila come una pionieristica (parliamo di un film realizzato nel 1949…) presa di coscienza della dissolvenza dell’essere umano e di tutto ciò che è inerente alle sue specifiche forme di autotestimonianza, ovvero il racconto sotto tutte le sue svariate forme.

Una volta cadute le maschere sociali per via della terribile lettera ricevuta, le tre donne avviano ciascuna un esame di coscienza a sua volta ammirevole e pionieristico per la capacità di introspezione. Ogni singolo episodio rievocato è innestato sul rapporto con la mal tollerata Addie Ross, ma intanto le donne ricordano pure come ciascuna di loro ha tradito un po’ se stessa per andare incontro ai propri mariti o alle proprie ambizioni secondo un modello di rapporto “produttivo”. Così, dando un colpo alla mercificazione della radio e pure una battuta esplicita contro il clima di sospetto antiamericano, Mankiewicz compone una commedia a tratti spassosa (il treno che a ogni passaggio squassa la casa di Lora Mae è un’illuminazione di genio) che senza alcuna evidenza spara contro i fondamentali di un’intera cultura. Laddove, tra i fondamentali, si ritrovano pure lo storytelling e la sua radicata cultura oltreoceano.
In Lettera a tre mogli pure lo storytelling va incontro a una totale rarefazione fino alla disintegrazione, e la smaterializzazione del racconto è condotta rimanendo ben ancorati al senso del film: in un mondo in cui la verità è veicolata solo tramite il pettegolezzo e gli occultamenti della maschera sociale, è destinata a disintegrarsi pure la materia con tutto il suo involucro. E Mankiewicz, autore di sconcertante modernità, dimostra una volta di più quanto si possa essere scatenati sperimentatori pur rimanendo negli apparenti confini della produzione hollywoodiana, nel cinema tutto di studio, tripudio di set, fondali e trasparenti per simulare esterni. Niente è più congeniale a Mankiewicz dello studio cinematografico, in cui tutto è riprodotto, immagine di qualcos’altro. Non si esce mai fuori, si resta sempre prigionieri di una quinta teatrale. Che spesso è nient’altro che la propria anima.

Info
La scheda di Lettera a tre mogli sul sito di Lab 80 Film.
Il trailer di Lettera a tre mogli su Vimeo.
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