Under the Sun

Under the Sun

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Vitalij Manskij, con Under the Sun, mostra per la prima volta al mondo la Corea del Nord, dalla “famiglia perfetta” alla propaganda di regime, dal culto dei leader alla militarizzazione. Firmando un documento storico di importanza capitale che non dimentica di interrogarsi sulla funzione del mezzo Cinema. Premio del pubblico al Trieste Film Festival 2016 nel concorso documentari.

Il re è nudo

A Vitalij Manskij è stato concesso dalle autorità della Corea del Nord di girare per un anno a Pyonyang, per ritrarre la vita di una famiglia media nel momento in cui la giovane figlia, Zin Me di otto anni, si stava preparando a entrare nei Giovani Pionieri. [sinossi]

Il Cinema, si sa, è una fabbrica di sogni, è il più abile degli illusionisti, pronto a creare sullo schermo quelle magiche menzogne alle quali noi tutti amiamo credere lasciandoci trasportare. Ma esistono anche altri tipi di menzogne, ben più radicate e agghiaccianti, inganni che esercitano un potere molto più grande e subdolo. Menzogne usate per portare all’ignoranza, per costringere le menti, per costituirsi Stato e germogliare nel corso di lunghi anni di lavaggio del cervello.
Della Corea del Nord si è sempre saputo pochissimo, un Paese chiuso da una dittatura che mentre si autodefinisce comunista calpesta quotidianamente i diritti umani del suo popolo, un Paese nel quale l’odio nei confronti dello straniero viene insegnato nelle scuole come principio base della vita, un Paese nel quale i confini sono controllati ed è quasi impossibile entrare e uscire, un Paese nel quale uno spaventosamente bizzarro culto della persona diventa legge marziale. Un Paese che si dice Under the Sun, dove però il paventato Sol dell’Avvenire è pallido, malato, nebuloso, ipocrita. La dittatura di Kim Jong-un, come prima fecero quelle di suo nonno e di suo padre, controlla tutto, comprese le menti dei cittadini, intimamente convinti di essere privilegiati rispetto al resto del mondo. Nulla sembra sfuggire ad un impianto statale di imposizioni e censure ormai oliato sin dai primissimi anni Settanta, la menzogna al potere fino a diventare l’unica realtà. Dalle feste di Stato in occasione dei compleanni nella famiglia Kim all’imposizione del taglio di capelli, dalle capacità produttive delle fabbriche ai racconti bellici dei veterani, dall’ossessione per la perfezione – il Paese perfetto, la famiglia perfetta, la scuola perfetta, l’ospedale perfetto, la recita perfetta – al controllo, ovviamente, delle arti e della cinematografia, mezzo considerato valido esclusivamente per cantare la gloria dei Kim e del Paese.

Eppure Vitalij Manskij, prendendosi non pochi rischi, con Under the Sun – premio del pubblico nel concorso documentari al Trieste Film Festival 2016 – è riuscito a prendere questo sistema così perfetto per il naso, evidenziandone tutte le falle con quella che è forse l’unica arma possibile: il Cinema, appunto, la grande illusione che batte la menzogna. Il tiranno è ingannato, il re procede nudo immortalato per sempre dall’obiettivo. Per potere girare a Pyongyang, al regista è stato imposto di attenersi rigidamente ad una sceneggiatura scritta e approvata dal governo coreano. Uno script fatto di felicità e di patria, la menzogna di Stato di una famiglia perfetta che vive felice nel Paese migliore al mondo. La dittatura ha imposto le location, i dialoghi e le situazioni, tenendo l’intera troupe sotto controllo 24 ore su 24 per un anno e controllandone giornalmente il girato. Nessun take era possibile al di fuori delle rigide regolamentazioni, nessuno sguardo era concesso su una realtà non filtrata dalla censura. Ma il governo non ha calcolato un potere forte almeno quanto il suo, quello del montaggio, quello del linguaggio cinematografico, la sua capacità di illudere fino a mostrare – finalmente – la verità.
Ecco quindi che Vitalij Manskij riesce a far crollare tutta la plasticosa perfezione imposta dalla sceneggiatura governativa inserendo nella versione finale del film, insieme a pochi ma significativi cartelli in grado di spiegare la situazione facendo emergere tutta l’ipocrisia di uno stato fondato sull’ignoranza e sulla bugia, ciò che sarebbe dovuto rimanere “fuori onda”, gli scarti. In uno Stato basato sulla menzogna e sulla finzione, anche l’idea stessa di documentario non può che essere fasulla, recitata, studiata a tavolino in modo che traspaia solo ciò che si vuole far vedere. Il regista ucraino distrugge sistematicamente questa impostazione con il semplice e puro potere delle immagini, mostrando le scene ripetute perché non abbastanza “gioiose” o “patriottiche”, gli interventi di quella sorta di co-regista incaricato dallo Stato di supervisionare le riprese, le lacrime dei bambini come ultimo disperato appiglio verso la sincerità. La funzione primaria del cinema, insomma, quella di illudere e prendere in giro lo spettatore e in questo caso una dittatura, diventa l’unico grimaldello possibile per scardinare un mondo di illusioni e prese in giro, riuscendo a mostrare la più intima essenza di una realtà che vive ignara in un proprio universo parallelo.

Vengono mostrate le lezioni a scuola, l’odio verso “gli invasori giapponesi” e “i loro amici imperialisti” instillato nelle menti dei più piccoli come un germe. Un’istruzione straniante, propagandistica, per la quale contano solo l’epopea dei Kim e i loro successi militari, la rappresentazione della loro grazia e potenza, la loro equità, la loro bontà, la superiorità della Corea nei confronti di qualsiasi altro luogo. Vengono mostrati gli operai al lavoro, una catena che non può prescindere da tutti i suoi anelli, nella quale imparare ad usare un macchinario tessile è gioia e motivo per essere per sempre grati agli ingegneri che lo hanno progettato.
Vengono mostrati i veterani più decorati, capaci di abbattere gli aerei nemici non per la loro perizia con le armi, ma perché il grande Kim Il-sung, Presidente eterno, gli ha insegnato ad usarle. Viene mostrata una degenza in ospedale, la bravura dei medici e la grande festa delle dimissioni. Viene mostrata tutta la cortesia forzata delle cerimonie, tutta la mentalità ormai chiusa di un popolo senza contatti con l’esterno, con una realtà non imposta, con il mondo vero.
Under the Sun di Vitalij Manskij è prima di tutto un documento storico di importanza capitale, ad oggi l’unica finestra su una realtà straniante e straniata, un film politico e sociale nel quale la necessità di mostrare è una corsa a perdifiato verso il reale come simbolo di libertà. Un film documentario straordinario, capace di portarci di fronte ad una realtà che probabilmente non capiremo mai, ma della quale oggi sappiamo molto di più. Ma anche un documento la cui importanza è inevitabilmente destinata a crescere nel corso degli anni, quando questa cortina di fumo si sarà diradata, quando il film sarà memoria storica. Quando forse, invece che rimanere frastornati e inebetiti davanti ad un presente agghiacciante, potremo finalmente ridere di un passato bizzarro.

Info
La pagina dedicata a Under the Sun sul sito del Trieste Film Festival.
Il trailer su YouTube.
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