Giungla di cemento

Giungla di cemento

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Noir carcerario in fuga dai confini del cinema di genere, Giungla di cemento di Joseph Losey è in realtà un’altra tappa dell’autore nello studio del rapporto tra essere umano e Potere. Ottimo recupero in dvd per Sinister e CG.

John Bannion è un criminale rinchiuso in carcere che sta per essere rilasciato. In prigione è un punto di riferimento, ammirato e temuto dai suoi compagni. Una volta fuori, s’innamora di una nuova donna e organizza una rapina all’ippodromo occultandone il bottino, ma una sua vecchia fiamma lo tradisce e per lui si riaprono le porte del carcere. Stavolta sarà più difficile riprendere il proprio ruolo di leader… [sinossi]

Il Potere, la minaccia, la delazione, i rapporti di forza, le pulsioni, l’anarchia e la schiacciante oppressione dei suoi slanci. In uno splendido film come Giungla di cemento (1960) di Joseph Losey, riproposto in un’ottima versione dvd per Sinister e CG, le chiavi di lettura e gli stimoli all’interpretazione si amplificano in modo esponenziale. Stanno in questo le sue doti più evidenti, sorrette a un’impalcatura espressiva che a tutt’oggi stordisce per la sua eleganza e modernità. Si può partire da un luogo concentrazionario per eccellenza, costeggiando canoni cinematografici consolidati, per scardinarli dall’interno, minarne la solidità, discuterli, rileggerli, “criticarli” nel senso più puro del termine, espandendone la portata.
Una volta autoesiliatosi in Gran Bretagna per non piegarsi ai crudeli meccanismi del maccartismo, l’americano Losey si ritrovò a lavorare spesso nel cinema di genere, ma tramutandolo in occasione di intensa personalizzazione.
Giungla di cemento ne è la dimostrazione più lampante: un noir per buona parte carcerario che analizza in modo spietatamente freddo e geometrico le dinamiche di un microcosmo carico di significati universali, riflettendo con amaro pessimismo sull’uomo e la sua debolezza, il suo indistruttibile istinto all’autoconservazione, dalla microcellula sociale a livelli superiori di organizzazione. Da un contesto narrativo di estrema concretezza si può comunque alludere alle astrazioni del Teatro dell’Assurdo, proiettare un luogo che è anche negazione di luogo (il carcere) sullo schermo di una condizione ontologica.
Di lì a poco la collaborazione tra Losey e Harold Pinter aprirà una florida stagione (Il servo, 1963; L’incidente, 1967; Messaggero d’amore, 1971), ma la dispersione identitaria, la condizione paradossale dell’essere umano, il Potere e le sue manipolazioni diventeranno una costante nel cinema di Losey anche in opere, come questa, non concepite in coppia con Pinter (basti pensare a Mr. Klein, 1976). E se con Pinter si creerà un rapporto più stretto ed elettivo, Losey tributa pure a Samuel Beckett attestati di stima, riservandogli in Giungla di cemento una probabile allusione in un frammento di dialogo evocante “Aspettando Godot”.

Prendendo le mosse dalle vicende di un carismatico criminale, il film esordisce in carcere con uno splendido e lungo incipit in cui si dà conto di una realtà concentrazionaria dove il senso sta già perdendo se stesso: ripetizioni, frasi formulariche, suono verbale che si stacca dal significato, azioni reiterate, e soprattutto, come ricorrerà sempre più spesso nel cinema di Losey, rapporti di forza. Il criminale John Bannion è infatti un punto di riferimento per i suoi compagni di carcere, ammirato e temuto, che risponde specularmente (ma con ampi margini di complicità e compromissione) a una struttura di potere, fatta di direttore, secondini e soprattutto il viscido superiore Barrows. Avvengono quotidiani strusci tra i due fronti di potere, la compromissione è all’ordine del giorno, funzionale al reciproco soddisfacimento, favorita anche dal dilagare di un assurdo quotidiano che tutto travolge (lo stesso Barrows, durante la rivolta del rumore, parteciperà al frastuono battendo il suo manganello contro il passamano di una scala).
Il primo quarto d’ora costituisce già capolavoro di per sé: prima una mano su una spalla percepita come aggressione, dominio e minaccia, poi un’introduzione magistrale a un universo, capace di narrare tensioni e rapporti di forza anche solo tramite un magnifico dolly ascendente. La sequenza si chiude con un’isterica esplosione di rumori nelle celle per coprire il pestaggio di un traditore. Già il senso sparisce, si fa solo rumore, appoggiandosi a un rapidissimo montaggio di brevi inquadrature straordinariamente moderno. Ma non si tratta soltanto della deflagrazione del senso; siamo già di fronte a un’apertura verso l’anarchia, altro polo fondante della riflessione di Losey.
Una volta uscito dal carcere, Bannion tenta infatti di riprendere la sua attività criminale secondo regole sostanzialmente individualistiche. Andrà perciò a scontrarsi contro gli interessi di organizzazioni più ampie e strutturate. Finisce di nuovo in carcere, e in breve tempo la sua leadership s’infrange contro una serie di particolarismi. Ognuno ha il proprio piccolo interesse da difendere, individuale e sovraindividuale: per un attimo sembra esplodere una rivolta animata da spinte rivoluzionarie, scaturita dal senso di rivalsa per la morte di un compagno di carcere. Ma la rivoluzione rivela presto il proprio vero volto, diventa strumento funzionale a interessi privati. Fa capolino la delazione. Bannion uscirà di nuovo dal carcere, stavolta con mossa strategica da parte delle alte sfere del penitenziario per tramutarlo a sua volta in strumento del potere. Di lì a poco sarà annientato dalle organizzazioni criminali. Ovverosia, chi conserva un proprio spirito puramente anarchico finisce stritolato in mezzo tra poli opposti di potere: strumentalizzato dal Potere ufficiale, rifiutato e massacrato dalla criminalità organizzata che non può permettersi di affrontare l’imprevedibilità di un cane sciolto.

Da estimatore anche dell’opera di Bertolt Brecht, Losey traduce abusati luoghi narrativi in viatico per ampie riflessioni su uomo e società, alludendo a ontologiche condizioni esistenziali. Si percepisce anzi un certo spirito brechtiano pure nell’esposizione di tali luoghi narrativi, ripercorsi con un evidente margine di coscienza critica. Da americano emigrato, Losey guarda dalla distanza della Gran Bretagna ai canoni del cinema noir, intimamente statunitense, con palese e divertito distacco.
Sono frequenti le consapevoli digressioni in senso straniante (la bella di turno che s’innamora di Bannion nel giro di due battute, ripetendo a pappagallo che vuol conoscere il “forte e bel Bannion”; il maestro di musica che s’intrattiene con Carter al pianoforte, fino a trasformare il suo diteggio in motivo ossessivo del commento musicale, disturbante e distraente per chi vede; le chiacchiere petulanti e del tutto inessenziali dell’amica di Maggie; il passante che durante la rapina all’ippodromo scambia un complice per un tassista, e Bannion risolve l’imbarazzante situazione facendolo salire in macchina con loro…), così come lo sguardo riservato al protagonista Bannion è spesso ironico e dissacrante.

Sorta di novello dandy che si fa pure la lampada in camera da letto, il criminale protagonista (non a caso tributato di un titolo originale assolutizzante, “The Criminal”) sembra giocare scientemente con l’immagine di sé divulgata da anni di cinema americano. È fascinoso, virile, molla le donne con uno schioccar di dita e senza apparenti motivi. Lui e il suo entourage criminale spesso sembrano “giocare al noir”, ripercorrendone frasi e formulari con margine di coscienza e/o con perdita del senso. Ricorrendo a varie risorse messe in cooperazione con l’obiettivo dell’Assurdo, Losey amplifica poi la spietatezza della sua riflessione concentrandosi sull’eterno scacco dell’essere umano.
Probabilmente ben memore delle vicende maccartiste che lo coinvolsero personalmente, Losey mette Bannion al centro di un fuoco di fila di manipolazioni emotive per estorcergli il nascondiglio della refurtiva (facile intravedere dietro a questi ricatti morali l’ombra degli squallidi interrogatori della commissione McCarthy che, facendo leva sulle paure e i punti deboli dei sospettati, li spingeva al tradimento). Così facendo Losey rintraccia nel particolarismo e nella delazione i veleni più mefitici di qualsiasi spinta propulsiva all’unione di intenti, alla solidarietà e alla ribellione.

Basta far leva sull’interesse privato e il castello rivoluzionario crolla tutto intero. Il Potere è più forte dell’individuo, così forte da potersi permettere anche di volgere la figura popolare di un nemico a proprio vantaggio. A ciò si aggiunge una consueta e gelida riflessione sui rapporti umani come essenziali rapporti di forza: il carcere di Giungla di cemento è una scatola cinese di rapporti di potere, ognuno è dominante di qualcuno e dominato da qualcun altro, ognuno è funzione di qualcun altro, in un rapporto che può essere di dipendenza psicologica, opportunistica o materiale (non trascurabile in tal senso è anche l’intrico d’interessi tra Bannion e il boss Saffron). Lo è nella struttura gerarchica tra i carcerati e i relativi gruppi di appartenenza, lo è tra gli uomini d’ordine, lo è soprattutto trasversalmente tra le due compagini.
Anticipando vagamente il successivo Il servo, è evidente come anche nel rapporto Bannion-Barrows riverberino le note dinamiche servo-padrone di hegeliana memoria; uno necessario all’altro, messi in concorrenza in una relazione che è soprattutto ambizione al dominio dell’altro e di un territorio, dove sotterranea scorre anche un’evidente attrazione scaturita dal piacere erotico del dominio. Attrazione-repulsione, sadomasochismo, stima e sfida: se in Bannion-Barrows tale relazione assume i suoi tratti più evidenti, essa alligna in realtà in buona parte delle relazioni narrate secondo forme e sfumature diverse.

A volte Losey si avvale di strumenti squisitamente visivi per darle evidenza: basti pensare in prefinale a quella scarpa a un centimetro dal volto di Bannion, disteso a terra privo di sensi, col piede che quasi sfiora la faccia: visualizzazione di un’estrema umiliazione fisica in linea con fantasmi di sottomissione, anticipatori delle inappuntabili loafer che ricorreranno in Il servo. Se infatti il discorso di Giungla di cemento conserva tutta la sua pregnanza è anche grazie a una cura filmica di rara eleganza, che avvalendosi di uno splendido bianco e nero a opera di Robert Krasker scardina la classicità del linguaggio verso una sorta di “espressionismo psichico”. Accensioni isteriche, ironia visiva, dolly, conclamate astrazioni (il disturbato Pauley isolato in primo piano, in un fascio di luce in mezzo al buio, per un allucinato assolo): l’allestimento di un universo oppressivo e repressivo, al quale opporsi con ogni possibile strumento, compresa la dissacrante risata di un criminale che crede di essere più forte. Pia illusione. Dal carcere si può pure uscire ogni tanto. Dalle maglie del Potere, mai.

Curiosità: Tra i protagonisti del film troviamo anche Sam Wanamaker, a sua volta vittima del maccartismo che come Losey trovò rifugio in Gran Bretagna riprendendovi la sua carriera.
Extra: trailer cinematografico.
Info
La scheda di Giungla di cemento sul sito di CG Entertainment.
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