Dr. Plonk

Dr. Plonk

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Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Dr. Plonk non è una rilettura del cinema dell’epoca e non è neanche un omaggio parodistico al cinema che fu: è, niente di più e niente di meno, un film muto. Ne segue fedelmente regole e movimenti, senza arrivare a viverli mai come ristrettezze. Dimostrazione di una personalità cinematografica magari eccentrica ma tutt’altro che sprovveduta.

Tempus fugit

La storia ci narra del Dottor Plonk, geniale scienziato che nel 1907 calcola che manchino cento anni alla fine del mondo: decide dunque di inventare una macchina del tempo (con l’aiuto della rubiconda moglie, del sordomuto aiutante Paulus e del frenetico cagnolino Tiberius) per recarsi nel 2007 e cercare di prevenire il disastro… [sinossi]

Rolf De Heer è un elemento quantomai bizzarro e disturbante nel panorama cinematografico occidentale: per quanto sia impossibile non riconoscere un saliscendi continuo nella carriera del cineasta australiano, quasi un cliché dell’idea di genio che si ha nel mondo occidentale, non possiamo negare di subire una fascinazione ogni qual volta questo pazzoide decide di sistemarsi dietro la macchina da presa per dirigere un film. Capace di passare da melodrammi carichi di atrocità e paranoia (Bad Boy Bubby, la sua opera più – giustamente – celebrata) a irrequieti scavi nelle ambiguità della borghesia (il non completamente riuscito La stanza di Cloe), da sci-fi stralunati (il misconosciuto Epsilon, il suo film più direttamente mainstream – insieme al dimenticabile Il vecchio che leggeva romanzi d’amore – e dunque, per contrappasso, uno dei pochi a non aver avuto alcun contatto con il pubblico italiano) a western a ritmo di blues ambientati nel deserto australiano (il sorprendente The Tracker), De Heer è uno dei registi formalmente più liberi tra quelli che è possibile trovare in circolazione di questi tempi. Non ci ha dunque stupito assistere, con Dr. Plonk (della cui progettazione il regista aveva già avuto modo di parlare ai tempi dell’uscita italiana del bel 10 canoe), a un film muto, omaggio estremamente consapevole e filologico al periodo dello slapstick: ciò che ne viene fuori è una girandola di trovate irresistibili, alle quali è veramente arduo tener testa.

Il plot è l’occasione perfetta per costruire una serie di gag senza soluzione di continuità, giocando quasi sempre sulle stesse situazioni (la sordità di Paulus, unita alla sua innata goffagine, lancia ben più di uno spunto comico), ma senza mai apparire pedante o prevedibile. Rigettiamo con forza anche l’accusa, mossa da più parti (sia durante le proiezioni alla Festa del Cinema di Roma, che a ridosso della sua uscita nelle sale italiane) che riguarda l’apparentemente eccessiva lunghezza dell’opera rispetto al materiale a disposizione; è proprio grazie alla sua durata (un’ora e venticinque minuti), al sapiente utilizzo dei tempi e degli spazi, che Dr. Plonk fa quello scarto in avanti che lo colloca tra i gioielli più luccicanti di questa stagione cinematografica. Sfruttando fino alle estreme conseguenze le possibilità temporali della pellicola, de Heer non fa altro che ribadire ulteriormente l’intento filologico a cui accennavamo in precedenza. È facile, ce ne rendiamo conto, cadere nel tranello edificato con cura del regista australiano, ma Dr. Plonk non è una rilettura del cinema dell’epoca e non è neanche un omaggio parodistico al cinema che fu: è, niente di più e niente di meno, un film muto. Ne segue fedelmente regole e movimenti, senza arrivare a viverli mai come ristrettezze. Dimostrazione di una personalità cinematografica magari eccentrica ma tutt’altro che sprovveduta, che in questa operazione ricorda in più di un passaggio il lavoro portato a termine nel bel Juha da Aki Kaurismäki.

E poi, siamo sinceri: basterebbe aver inventato il personaggio del cane Tiberius per meritare ovazioni di qui al prossimo secolo…

Info
Il trailer di Dr. Plonk.
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