Dogtooth

Dogtooth

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Presentato a Cannes 2009 nella sezione Un Certain Regard, Dogtooth è non meno divertente che affascinante – per quanto, certo, di un fascino disturbante e perverso. E lo è perché il comico, mai ricercato apertamente dalla messa in scena, entra nel perimetro di questa perfettamente autosufficiente gabbia visuale da non si sa bene dove.

La casa dalle finestre che (non) ridono

Padre, madre e i loro tre figli vivono in una casa alla periferia di una città. I tre figli, in seguito ad una decisione “educativa” dei loro genitori, non hanno mai lasciato la casa e vivono completamente ignari di cosa sia veramente il mondo fuori da quelle quattro mura in cui vivono dalla nascita. L’unico contatto col mondo esterno è una ragazza che entra dentro la casa solamente per dare sfogo alle pulsioni sessuali del figlio maschio.  Ma qualcosa sta per cambiare… [sinossi]

Un mangianastri che spiega il significato di alcune parole di uso comune, attribuendogli un senso completamente arbitrario. Tre giovani dai venti ai trent’anni che immaginano un gioco: fare una gare a chi tiene il dito più a lungo sotto l’acqua calda. Bizzarria dopo bizzarria, tassello dopo tassello, capiamo (non sarà subito, comunque): i tre sono fratelli, vivono in una bellissima villa circondata da un alto steccato insieme ai genitori. Suo padre è un industriale, e li tiene da sempre in totale isolamento col mondo esterno, con la scusa che solo quando i canini crescono un giovane è pronto per uscire di casa. Provvede alle necessità sessuali del figlio portandogli a casa la guardiana della sua fabbrica (che deve bendarsi durante il viaggio in macchina), regolarmente retribuita in denaro per le sue prestazioni. Le figlie, invece, si leccano a vicenda in cambio di regali. Se qualunque corpo estraneo invade il perimetro della tenuta (poniamo: un gatto), il padre giustifica con una spiegazione completamente falsa e campata per aria (come poi avviene per buona parte dei termini impiegati da questo allucinante microcosmo) la presenza di questo strano essere mai visto. (Il quale poi, come nel caso del gatto, può dunque del tutto normalmente venire tranciato a sangue freddo con dei forbicioni da giardino). Questa strana detenzione di quasi-adulti in uno stato di fatto ancora infantile è ovviamente un soggetto parecchio disturbante. Il regista Yorgos Lanthimos, che è parecchio intelligente (suo quel Kinetta lodato da molti palati fini sin dalla sua uscita nel circuito festivaliero nel 2005), sa bene che la maniera migliore di averci a che fare è dunque prenderlo in contropiede. Trattarlo visivamente e stilisticamente come la cosa più normale del mondo. Il tono scelto per Dogtooth è dunque rigorosamente asettico. Gelato.

Inquadrature (fisse, di regola) di spiccato sapore geometrico, che spesso colgono solo squarci parziali di oggetti e persone, luci e colori freddi, placcandoli da molto vicino in un impietoso iperrealismo. Atteggiamenti quasi catatonici, gestualità controllatissima e minimale, discorsi pronunciati quasi come a farlo fosse un risponditore automatico. Ma mai rinunciando a un’aria di piatta (e ovviamente paradossale) ordinarietà. Nessuna strizzata d’occhio o ricerca del sorriso: l’inquadratura deve, anche lei, essere un microcosmo perfettamente autosufficiente dal punto di vista compositivo, eppure recare qualche traccia impalpabile del fuoricampo. Ma pensare a The Village a questo punto è esagerato: infatti, tutto ciò non va nella direzione delle immense ambizioni del film di Shyamalan, ma tutto sommato esse si possono ridurre all’effetto para-comico che viene provocato. Dogtooth, in effetti, è non meno divertente che affascinante – per quanto, certo, di un fascino disturbante e perverso. E lo è perché il comico, mai ricercato apertamente dalla messa in scena (che mai abbandona il partito preso di un gelido, spigoloso e figurativamente prezioso resoconto), entra nel perimetro di questa perfettamente autosufficiente gabbia visuale da non si sa bene dove.

Info
Il trailer di Dogtooth.

  • Dogtooth-2009-Yorgos-Lanthimos-01.jpg
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