Life, Above All

Life, Above All

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Presentato a Cannes 2010, Life, Above All è cinema che lavora sull’emozione, che scava le inquadrature scolpendole in tutte le loro parti, che esibisce un commovente cinemascope scelto per lavorare su quella che potrebbe sembrare una contraddizione, ovvero sui personaggi e sulle loro infinite r/esistenze, sostando sui loro volti con un’insistenza sensuale e dolorosa.

Il cinema, sopra tutto

Subito dopo la morte della sorella del bambino appena nato, Chanda, 12 anni, viene a conoscenza di una voce che si diffonde nel suo piccolo villaggio vicino a Johannesburg. Intuendo che il gossip nasce dal pregiudizio e dalla superstizione, Chanda, lascia la casa e la scuola in cerca di sua madre e la verità… [sinossi]

Era da dieci anni, dal 2000, l’anno in cui realizzò e portò a Cannes Hijack Stories, che Oliver Schmitz non elaborava la sua poetica densa, magmatica, inscritta nei corpi e nella luce, per il cinema. Anni, quelli che separano quel film di gang urbane da Life, Above All, passati dal regista sudafricano figlio di immigrati tedeschi a lavorare per la televisione, tra Sudafrica e Germania (fatta eccezione per il segmento girato per il film collettivo Paris, je t’aime). Cineasta dallo sguardo fiammeggiante, Schmitz è tornato al lungometraggio con un melodramma a tinte forti, incandescente, che tratta con la finzione più radicale un argomento come quello dei bambini sudafricani orfani di genitori morti di Aids (a loro il film è dedicato). Dunque, soggetto delicato, che Schmitz affronta con rigore filmico nel mettere in scena quel che accade a una ragazzina di dodici anni, Chanda, di fronte a eventi familiari sempre più drammatici, e l’amicizia, indelebile nel tempo e al di là delle persecuzioni della vita, fra lei e la coetanea Esther, costretta a prostituirsi.

Life, Above All (fin dal titolo che richiama il melodramma nella sua classicità senza tempo) è cinema che lavora sull’emozione, che scava le inquadrature scolpendole in tutte le loro parti, che esibisce un commovente cinemascope scelto per lavorare su quella che potrebbe sembrare una contraddizione, ovvero sui personaggi e sulle loro infinite r/esistenze, sostando sui loro volti con un’insistenza sensuale e dolorosa – volti, e occhi, labbra, che conquistano lo schermo. Quelli di Chanda e Esther (interpretati da due adolescenti al loro esordio, bravissime, rispettivamente Khomotso Manyaka e Keaobaka Makanyane), e degli altri numerosi personaggi e corpi, soprattutto donne di diverse età che, in maniera differente, si confrontano con il dolore e le ipocrisie, le superstizioni, i silenzi di una società che del passato mantiene ancora in primo piano le forme di una segregazione non razziale ma appunto inscritte nelle credenze meno tollerabili e più violente, di cui le donne sono le principali vittime. Schmitz, con l’uso di una camera a mano morbida, tesse una rete di sguardi di straordinaria solidità, proprio nel senso di raccontare (portando sullo schermo il romanzo Chanda’s Secrets di Allan Stratton) una quotidianità marginale (ambientata nella township di Elandsdoorn, non lontano da Johannesburg, città che il regista conosce bene, avendo in essa già posato il suo sguardo per Mapantsula, suo esordio nella finzione del 1987, che uscì anche in Italia con il titolo Afrikander; per Jo’Burg Stories, del 1997; per Hijack Stories) con il senso di un cinema sopra tutto, come la vita che continua nonostante le peggiori avversità.

Schmitz non è mai didascalico, ben sapendo di usare un genere a continuo rischio di semplificazione e serializzazione. Life, Above All – che inizia e finisce con una morte, della sorella piccola di Chanda e della madre della ragazza – diventa, nel suo farsi, un indiretto, stupefacente omaggio dal di dentro, mai esibito, del miglior cinema africano, quello che è stato più incompreso proprio per la sua innovazione semantica e politica. Infatti, Chanda assomiglia alla bambina, anch’essa ostinata e che deve apprendere, studiare per non cadere negli errori delle generazioni che l’hanno preceduta, protagonista del capolavoro di Souleymane Cissé Waati (1995), road movie attraverso il continente che dal Sudafrica ai tempi dell’apartheid partiva e a quella nazione appena liberata dalla segregazione tornava. E Chanda e Esther ci piace vederle come il controcampo femminile del capolavoro di Idrissa Ouedraogo Kini & Adams (1997), dove l’amicizia tra i due uomini del titolo esisteva e continuava, anche in quel caso contro ogni avversità, nel tempo, guardando alla vita, e al cinema – oltre la morte. Proprio come accade in Life, Above All.

Info
Il trailer di Life, Above All.

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