Totem

Alla prospettiva documentaria e allo sguardo apparentemente distaccato, adottato dalla regista tedesca per garantire equidistanza da un percorso infarcito di simbolismi, manca però la giusta dose di coerenza. Opera prima, Totem è stato presentato alla Settimana della Critica di Venezia 2011.

Gruppo di famiglia

Una ragazza forse straniera, Fiona, viene assunta come collaboratrice domestica e bambinaia da una famiglia borghese della Ruhr, i Bauer: padre, madre, una figlia adolescente che frequenta un ragazzo molto più grande di lei, un bambino piccolo. La vita quotidiana scorre apparentemente normale, tra la piscina, i pasti consumati insieme, l’ozio in giardino, le brevi passeggiate. Regole e rituali ben precisi la scandiscono. La disciplina viene imposta e ribadita di continuo. Ma ben presto prendono forma le nevrosi e le angosce dei singoli e i ruoli non sono più così chiari, i confini non più così netti. In particolare la madre, che vive male l’arrivo precoce della menopausa, scarica la sua frustrazione e la sua rabbia allevando due bambolotti come fossero veri neonati, mentre l’uomo, spesso assente per lavoro, nutre per Fiona un interesse morboso sempre più evidente e pericoloso… [sinossi – www.sicvenezia.it]

Realizzato come film di diploma per la Hochschule für Fernsehen und Film di Monaco di Baviera (che infatti risulta tra i coproduttori del film), Totem è il lungometraggio d’esordio di Jessica Krummacher, selezionato per il concorso ufficiale della Settimana della Critica di Venezia 68. Alla scuola bavarese la regista tedesca ha frequentato i corsi di documentario e di giornalismo televisivo, e probabilmente si potrebbe partire proprio da qui per cercare di rintracciare le linee guida di questa ambivalente opera prima, un esordio di indubbio interesse ma in cui la progettualità del discorso non è confermata dagli esiti. Quella della Krummacher sembra essere una prospettiva documentaria sostanzialmente impostata sulla frontalità del punto di vista e su un largo uso dei piani a media distanza. Uno sguardo che sembra dunque volersi tenere a distanza dalla materia narrata, non prendere posizione nei confronti dei suoi personaggi, scegliere quasi sempre un bilanciamento nella pesatura compositiva, ritrarre semplicemente il gruppo di famiglia nel proprio ambiente domestico.

Quasi tutta la vicenda del film si svolge infatti nella casa di una famiglia tedesca. Una casa con un piccolo giardino nel quale troneggia un pastore tedesco impagliato le cui uniche escursioni sono nel bosco circostante fino alla strada statale che ne delimita l’area. Proprio quest’ultima, sulla quale scorre una moltitudine di macchine a velocità sostenuta, è ripetutamente segnalata come il simbolico confine del territorio indagato, tanto da risultare anche difficile da attraversare. Come viene sottolineato anche nelle note di regia un non-luogo in cui spazio e tempo perdono volutamente le loro coordinate.
Ad abitare la casa è la famiglia Bauer, una famiglia borghese come potrebbero essere tante, costituita da una coppia con due figli: una quindicenne che frequenta un ragazzo molto più grande di lei e il piccolo Jürgen, il bambino di circa sei o sette anni di cui si dovrebbe occupare Fiona, la ventitreenne collaboratrice domestica assunta dalla famiglia tramite internet. La madre infatti non può farlo, occupata com’è ad accudire la coppia di bebè di plastica nei quali riversa tutta la folle malinconia derivata dalla menopausa. Un po’ come l’arrivo dell’anonimo ospite interpretato da Terence Stamp in Teorema di Pier Pasolini, quello di Fiona fa deflagrare i comportamenti del nucleo familiare. Con la differenza che, mentre nel film del 1968 la deflagrazione è un‘esplosione verso l’esterno (le bizzarre reazioni dei diversi membri della famiglia milanese si rivolgono tutte fuori dalle mura della loro abitazione, coinvolgendo persone che dunque non appartengono al nucleo familiare), quella di Totem è un’implosione verso l’interno, il cui unico vero bersaglio diventa proprio l’elemento estraneo alla famiglia stessa. La giovane collaboratrice domestica infatti prima deve subire il tentativo di stupro da parte del pater familias Wolfgang (che è quasi un’iniziazione), quindi le scomposte reazioni da parte della moglie Claudia, in grado prima di respingerla e poi di attrarla a sé mossa da un’alternanza di invidia e di necessità di condivisione. Incapace di sostenere tali pressioni, Fiona decide di togliersi la vita, assumendo così il ruolo simbolico dell’agnello sacrificale che si immola al Totem-famiglia.

Se dunque il punto di partenza tra i due film sembra essere il medesimo, risultano completamente diversi i punti di arrivo. Nel film pasoliniano infatti l’elemento esterno arrivava di sua spontanea volontà e provocava la frantumazione irrimediabile della famiglia borghese, mentre qui esso ne viene attratto per poi rimanerne fagocitato. La famiglia di Totem è insomma rappresentata come un grumo monolitico inattaccabile, capace di distruggere i corpi estranei che entrano nella sua orbita. Un grumo monolitico che intende conservare lo status quo e che dunque tenta la navigazione in un eterno presente, incapace di guardare con fiducia a ciò che potrebbe essere dopo (come dice una battuta del film «Siamo tutti scettici sul futuro, forse perché crediamo che i nostri genitori ci abbiano mentito, come con Babbo Natale»). Come rileva Cristiana Paternò nel bel saggio che introduce il film, più che a Pasolini dunque la Krummacher sembra riferirsi al cinema di Michael Haneke o al Kynodontas di Yorgos Lanthimos. E per quel riguarda i riferimenti filosofici e letterari non solo al saggio freudiano del 1913 che il titolo del film sembra esplicitamente evocare (Totem e tabù), ma anche a Schiller (Lettere sull’educazione estetica dell’uomo) e, soprattutto, alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, in particolare alla dialettica servo-signore, di cui Totem sembra rovesciare il significato (qui infatti il servo non riesce a ribaltare i ruoli) .
Il discorso portato avanti dal film potrebbe essere preso in considerazione se propria la Forma che lo sostiene non contenesse al suo interno alcuni elementi che ne intaccano l’organicità. Alla prospettiva documentaria e allo sguardo apparentemente distaccato adottato dalla regista tedesca per garantire equidistanza da un percorso infarcito di simbolismi, manca infatti la coerenza. Laddove in alcune situazioni la macchina da presa smette di registrare la scansione degli eventi per aderirvi empaticamente. È il caso, ad esempio, della sopracitata sequenza del tentativo di stupro da parte di Wofgang, in cui la macchina da presa si avvicina ai due protagonisti per far sentire tutta la brutalità dell’atto. Oppure quello della sequenza della danza tra Claudia e Fiona, raccontata da una macchina da presa partecipante. Nel suo essere con Fiona, nello schierarsi dalla sua parte, la Krummacher sembra così eludere la propria progettualità discorsiva. Inserendo elementi contraddittori insomma, finisce per caricare il senso del film di un’ambiguità che lo eccede.

Info
Il trailer di Totem.

  • Totem-2011-Jessica-Krummacher-01.jpeg
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