Io sono – Storie di schiavitù

Io sono – Storie di schiavitù

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Presentato nella sezione Controcampo Italiano Doc di Venezia 2011, Io sono – Storie di schiavitù non vuole essere un film d’inchiesta, né tantomeno un atto d’accusa che punta il dito verso qualcuno o qualcosa, piuttosto prova a fare luce – e ci riesce a nostro avviso – su quei corpi abbandonati a sé stessi, dimenticati dalle Istituzioni, al quale la Cupisti dà voce e restituisce un’identità.

La legge del marciapiede

Sono storie di quotidiana schiavitù quelle dei protagonisti: Mohammad, arrivato in Italia a 14 anni, lavora e studia per ripagare la cifra dovuta per il suo viaggio; Dadir, dalla Somalia approda in Italia dopo aver pagato il passaggio ben quattro volte; Solomon, ex bambino soldato fuggito dalla guerra in Somalia; Elizabeth, che è riuscita a ricostruire la sua vita, dopo aver denunciato i propri sfruttatori. E poi le vicende di Kabir, Jennifer, Julia e tanti altri. Arrivano in Italia spinti dalla fame, dalla miseria, dalle guerre o dalla ricerca di una propria identità, pagando cifre sproporzionate per il viaggio a organizzazioni illegali e criminali. Desiderando migliorare il proprio futuro, una volta arrivati, si trovano invece a lavorare in nero, sottopagati o addirittura costretti a prostituirsi per restituire l’ammontare del loro debito. Da Crotone a Napoli a Roma per raccontare queste storie seguendo i versi della poesia Profezia di Pasolini. [sinossi]

Vista la non esaltante e altalenante qualità espressa dalla rosa dei titoli selezionati per il concorso della sezione Controcampo Italiano Doc di Venezia 2011, sorprende la scelta da parte del comitato di selezione di collocare l’ultima fatica documentarista di Barbara Cupisti al di fuori della competizione, premiando al suo posto opere oggettivamente mediocri e inferiori come Quiproquo di Elisabetta Sgarbi o Piazza Garibaldi di Davide Ferrario. Una cosa è certa, Io sono – Storie di schiavitù avrebbe meritato ben altra attenzione e una collocazione più appropriata all’interno della programmazione dell’ultima Mostra, rispetto agli spazi offerti dagli organizzatori negli ultimi sgoccioli del cartellone della 68esima edizione della kermesse.
Il film della regista viareggina è una nuova e chirurgica coltellata assestata al cuore dello spettatore, lo stesso che quattro anni fa aveva dovuto piegare le proprie resistenze davanti alla visione straziante di Madri, David di Donatello conquistato a qualche mese di distanza dalla presentazione in anteprima proprio in quel del Lido. Lasciato il conflitto israeliano-palestinese, raccontato dal punto di vista delle madri dei martiri attraverso toccanti e crudi ricordi del passato, la Cupisti torna dietro la videocamera per consegnare alla platea di turno nuovi capitoli di storie di sofferenza, quella di uomini e donne giunti in Italia spinti dalla speranza di una vita migliore e finiti in un incubo a occhi aperti fatti di miseria e violenza.

Piegati alla logica della strada assistiamo alla loro graduale discesa verso il gradino più basso della scala, quella degli invisibili, in un tour fisico ed emozianale che conduce l’obiettivo della Cupisti da Crotone a Roma, passando per Napoli, con in testa le parole deflagranti lasciate da Pier Paolo Pasolini ne La profeziaIo sono – Storie di schiavitù descrive a parole e per immagini prima il cammino verso l’agognata libertà e poi la sua progressiva perdita. La regista ha il merito di non ricattare il pubblico e di non spettacolarizzare la sofferenza altrui come certi speciali mandati in onda sul piccolo schermo, nonostante la videocamera indugi sempre sui primi piani e sui lunghi silenzi degli intervistati, ma si limita a documentare il crollo di un sogno e la dignità di persone che attendono, reagiscono, e provano a non lasciarsi sopraffare dagli eventi attraverso lo strumento della parola, della confidenza e dello sfogo. 

Parte consistente di questo dialogo corale è dedicato a chi è costretto a scendere in strada per prostituirsi. La Cupisti non realizza un affresco contemporaneo sul mestiere più antico del mondo, per questo siamo lontani dalle visioni sconcertanti catturate da Michael Glawogger in Whores’ Glory o nei sessanta minuti in bilico tra finzione e realtà che vanno a comporre Vite di ballatoio di Daniele Segre, piuttosto sposa l’approccio e le argomentazioni del collega tedesco Bruno Ulmer in quel suo gioiello chiamato Welcome Europa. Così come il documentario di Ulmer, allo stesso modo Io sono – Storie di schiavitù non vuole essere un film d’inchiesta, né tantomeno un atto d’accusa che punta il dito verso qualcuno o qualcosa, piuttosto prova a fare luce – e ci riesce a nostro avviso – su quei corpi abbandonati a sé stessi, dimenticati dalle Istituzioni, al quale la Cupisti dà voce e restituisce un’identità.

Info
La pagina facebook di Io sono – Storie di schiavitù.

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