Love for Life

Love for Life

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Con Love for Life, presentato in concorso alla sesta edizione del Festival/Festa del Cinema di Roma, Gu Changwei si concentra su un tema ancora tabù in Cina, vale a dire il racconto della diffusione dell’AIDS. Un’intuizione meritoria che si scontra però con un’opera assai poco ispirata e soprattutto grondante retorica, per di più appesantita da una produzione laccata e mainstream.

Sangue del mio sangue

In un piccolo villaggio cinese un traffico illecito di sangue ha diffuso l’AIDS nella comunità. La famiglia Zhao è al centro della vicenda: Qi Quan, il figlio maggiore, è stato il primo a indurre i vicini a donare il sangue con la promessa di denaro veloce. Il nonno, disposto a tutto pur di rimediare al danno causato dalla sua famiglia, trasforma la scuola locale in una casa di cura per i malati. Fra i pazienti c’è il suo secondo figlio De Yi, che affronta la morte imminente con rabbia e incoscienza. De Yi incontra la bellissima Qin Qin, moglie del cugino, recente vittima del virus. I due sono attratti l’uno dall’altra, condividendo l’amarezza e la paura del loro destino. Pur senza aspettative per il futuro, diventano amanti ma si accorgono presto di essere davvero innamorati l’uno dell’altra. Il sogno di vivere la loro relazione in modo legittimo e libero viene compromesso quando i compaesani li scoprono: con il tempo che scivola via, devono decidere se arrendersi o dare una possibilità alla felicità prima che sia troppo tardi. [sinossi]

Durante le ultime giornate del Festival di Berlino 2011 è stato possibile imbattersi in Together, backstage di Love for Life firmato dal grande eretico del documentario asiatico, Zhao Liang (Return to the Border, Crime and Punishment): sul set del film di Gu Changwei, Zhao abbandonava la sua vena più eversiva e caustica per raccontare con onestà e partecipazione i ritratti dei malati di AIDS chiamati a recitare nella pellicola. Un’opera a suo modo storica, quella di Gu, perché la sindrome da immuno-deficienza acquisita in Cina è ancora oggi un tabù, nonostante la terribile diffusione che ha sia nelle metropoli che nelle zone rurali dell’interno.

E proprio in campagna, agli inizi degli anni Novanta del secolo da poco conclusosi, è ambientato Love for Life, opera terza in qualità di regista per Gu Changwei, che dopo aver raccolto unanimi plausi per il suo lavoro come direttore della fotografia per i registi della Quinta Generazione (su tutti Zhang Yimou e Chen Kaige) sta dividendo la critica con i suoi personali parti estetici. Dopo aver esordito con l’ottimo Peacock, con il quale sbancò vincendo premi nei festival di mezzo mondo, si era avvertito un notevole passo indietro con And the Spring Comes, storia dei sogni artistici e umani di una cantante d’opera e dei suoi amici presentato – e premiato – alla seconda edizione del Festival di Roma. Gu torna dunque nella capitale per raccontare un’altra storia di sogni (destinati inevitabilmente alla sconfitta), quella di un uomo e una donna malati di AIDS che, dopo essere stati ripudiati dalle rispettive famiglie, trovano nell’amore dell’uno per l’altra la forza per andare avanti, in attesa che il virus faccia il suo corso e li trascini alla morte. Come già scritto in precedenza non si può affrontare Love for Life senza riconoscere il coraggio di un’operazione che non solo cerca di far conoscere al popolo cinese una realtà che troppo spesso viene taciuta e nascosta, ma ha anche preteso che a interpretare piccole parti fossero proprio delle persone contagiate dalla malattia. Un elemento, quest’ultimo, assai più avvertibile nel backstage di Zhao Liang che nel film, visto che dopo un premontato di due ore e mezza Gu è stato costretto a sfrondare la storia fino ad arrivare all’ora e quaranta attuali: è stato così quasi completamente tagliato il personaggio del bambino, interpretato dal piccolo He Zetao, che rappresentava la guida del documentario di Zhao e che nel montaggio definitivo rimane in scena solo come voce narrante – neanche per tutto il film, tra l’altro – e, in carne e ossa, nell’incipit.

Più che a un intervento censorio delle istituzioni si deve però pensare a una precisa volontà della casa di produzione: nel momento in cui si cerca di trasformare una storia “scomoda” in un possibile successo di botteghino, coinvolgendo star di prima grandezza come Zhang Ziyi e Aaron Kwok, è inevitabile che l’attenzione debba concentrarsi sulla storia d’amore. Anzi, è proprio quando Gu mette da parte l’AIDS in quanto tale per dare aria e spazio alla dolorosa e tenera passione dei due protagonisti, che Love for Life si risolleva parzialmente dall’aura di grave mediocrità nella quale era sprofondata fino a quel momento. La prima ora e un quarto del film, infatti, sfiora in più di un’occasione il puro imbarazzo: sequenze come quella dell’inseguimento del treno, o della cuoca a cavallo del maiale che corre impazzito per i vicoli del villaggio, lasciano basiti per la loro totale inadeguatezza, a pochi passi dal demenziale involontario. Per non parlare del modo in cui viene comunque descritto il decorso della malattia: i personaggi cadono morti per strada da un momento all’altro, neanche si trattasse di una vera e propria ondata di peste, e senza dare alcun segno di improvviso peggioramento delle condizioni di salute. L’impressione è che non si sia voluto scioccare il pubblico cinese, preferendo raccontargli una mezza verità, ma di fatto ridicolizzando e svilendo la tematica. Restano dunque solo le buone intenzioni e il commovente finale, con l’estremo sacrificio di Zhang Ziyi – come sempre bellissima – che si immerge nell’acqua gelida per rinfrescare con il proprio corpo i deliri del marito febbricitante.
Ma non basta una sequenza riuscita per salvare un film sbagliato in fase di progettazione. Chissà quale sarebbe stato l’impatto con il primo montaggio, ma l’impressione è che non sarebbe poi cambiato molto.

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