The Great Magician

The Great Magician

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Con The Great Magician Derek Yee dirige un’opera che guarda con sorniona nostalgia a un’epoca del cinema hongkonghese oramai estinta: un omaggio evidenziato nelle scenografie, nel tono scanzonato e naif dei dialoghi, perfino nei movimenti di macchina.

L’illusionista

Chang Hsien è un prestigiatore, ma per quanto le sue abilità sul palco siano strabilianti, ciò che davvero desidera fare è aiutare i rivoluzionari a catturare il signore della guerra della zona, Bully Lei. Lei e il suo braccio destro Liu Kunshan si servono degli spettacoli di magia come metodo di reclutamento di soldati; inoltre il signore della guerra fa incetta di concubine, e tra queste la su preferita è l’acrobata Liu Yin, che però non gli si concede sia perché suo padre è stato imprigionato proprio da Lei sia perché Chang Hsien è il suo grande amore segreto… [sinossi]

Per quanto si faccia un gran parlare, sin dal ritorno di Hong Kong sotto l’egida della Cina continentale, di crisi irreversibile dell’apparato produttivo della piccola città-stato, è ancora possibile rintracciare delle sacche di resistenza creativa pronte a opporsi all’egemonia culturale cinese. Nel bel mezzo di film che in effetti si sono adeguati a una censura preventiva, anestetizzando di fatto la disillusa posa anarcoide che serpeggiava fino a quindici anni fa tanto nelle commedie quanto nei drammi e negli exploitation movie di produzione hongkonghese, si annidano dunque opere che guardano con nostalgia al tempo che fu e cercano di riproporne ritmi e schemi narrativi. Non è probabilmente un caso che uno dei registi che si muove in questa direzione – pur non centrando sempre il bersaglio – sia Derek Yee: dopo aver esordito come attore appena ventenne partecipando a innumerevoli film, diretti tra gli altri anche da Chor Yuen (che lo vuole ripetutamente all’interno del cast), Yee passa dietro la macchina da presa nel 1986, dirigendo il severo dramma The Lunatics. Da quel momento la sua attività principale nel cinema diventa quella di regista e sceneggiatore, specializzato in particolar modo in drammi sentimentali e action in odore di Johnnie To e John Woo – vedere per credere l’appassionante One Nite in Mongkok, passato in Italia sugli schermi del Far East nel 2005. Non si avevano in realtà grandi riprove sulla capacità di Yee di portare in scena anche le commedie, genere che a Hong Kong ha sempre trovato uno spazio piuttosto rilevante: si aspettava dunque al varco The Great Magician (Dai mor suet si è il titolo originale cantonese), anche perché le ultime opere del regista non avevano dissipato i dubbi sull’altalena qualitativa di una carriera autoriale ancora tutta da decifrare. 

La prima mezz’ora in cui si articola The Great Magician sembra essere cadenzata completamente fuori ritmo: l’azione non trova spazio nel modo adeguato, e anche alcune soluzioni intelligenti, come l’esibizione di “magia” orchestrata ad arte solo per irretire il popolo e convincerlo ad arruolarsi tra le truppe del turpe ma in fin dei conti innocuo Bully Lei, finiscono per disperdere il loro potenziale satirico. Il problema è probabilmente legato all’incapacità di Yee di scegliere da subito la via da seguire: fino a quando il film è infatti incentrato sul triangolo amoroso Chang/Liu/Bully, l’insieme sembra oscillare tra le timbriche comiche e quelle maggiormente chiaroscurali del melodramma. Solo con l’elevazione di Chang e Bully a “strana coppia” e con la scelta di un registro vicino a quello delle avventure picaresche del tempo che fu The Great Magician inizia davvero a carburare, trovando un proprio spazio ben definito all’interno della commedia contemporanea hongkonghese. Anche perché di carne al fuoco Yee ne mette davvero molta e spesso riesce a centrare il bersaglio: basterebbe pensare alla riflessione sull’illusione come  veicolo indispensabile dell’intrattenimento, e al contemporaneo ricorrere in maniera persino esasperata a effetti digitali che rendono materiale l’immateriale per rendersi conto di come non si stia assistendo a uno spettacolo dozzinale, inconsapevole del proprio ruolo. In questo senso la sequenza dell’esibizione di magia davanti alle truppe giapponesi e ai fautori della restaurazione imperiale cinese acquista un valore da non sottovalutare, sempre consapevoli del ruolo di puro intrattenimento che si assegna in maniera inequivocabile il film.

Un’opera che guarda con sorniona nostalgia a un’epoca del cinema hongkonghese oramai estinta: un omaggio evidenziato nelle scenografie, nel tono scanzonato e naif dei dialoghi, perfino nei movimenti di macchina. Ma soprattutto nell’interpretazione sublime di Tony Leung Chiu Wai (non lo si vedeva sullo schermo dai tempi de La battaglia dei tre regni di John Woo) e Lau Ching-wan (da Police Story 2 di Jackie Chan a Life Without Principle di Johnnie To una carriera pressoché inattaccabile), con quest’ultimo che sembra rincorrere il linguaggio del corpo di Michael Hui, vale a dire il Dio della commedia di stanza a Hong Kong.

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