Dal profondo

Dal profondo

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In concorso nella sezione Prospettive Doc Italia del Festival di Roma 2013, Dal profondo di Valentina Pedicini è un viaggio al centro della terra che regala visioni metafisiche e immagini spettacolari. Un perfetto esempio di come l’estetica possa però fagocitare il racconto, depotenziandolo.

Che cosa spinge ogni giorno, una donna a scendere 5oo metri sotto terra, sfidando il buio, la paura e un team di 150 uomini? Patrizia è l’unica e ultima minatrice italiana. Una miniera a rischio chiusura, un universo parallelo da scoprire, un nuovo punto di vista, orgogliosamente femminile, sul mondo sotterraneo... [sinossi]
Respira, respira piano,
i tuoi occhi si abitueranno presto al buio.
Non aver paura, questa è la tua casa…

Echeggiano dentro e fuori dallo spazio diegetico, come un flusso mnemonico che dalla mente di una donna raggiunge uno schermo, quello della sala cinematografica, per poi riversarsi sulla platea di turno e offrire al singolo spettatore un’autentica esperienza sensoriale a 360°. Le parole che aprono Dal profondo, primo documentario di lungometraggio firmato da Valentina Pedicini, sono quelle di Patrizia, l’unica e ultima minatrice italiana che lavora alla Carbosulcis, al momento la sola miniera carbonifera attiva nel nostro Paese, situata in quel di Nuraxi Figus, nella provincia meridionale sarda di Carbonia-Iglesias.

Presentato in concorso all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Prospettive Doc Italia, vincitore del Premio Solinas documentario per il cinema 2011, il film della regista brindisina è un affascinante e magnetico viaggio nelle viscere della Terra, una discesa nel sottosuolo al seguito di una minatrice e dei suoi colleghi. Il risultato è un tuffo nell’inchiostro, nell’oscurità squarciata dai lampi di luce delle torce elettriche e dei neon che delimitano di tanto in tanto le lunghe gallerie della Carbosulcis. Un’esplorazione che da fisica si fa intima, perché estesa dallo spazio circostante a quello interiore delle persone che quelle arterie sotterranee le percorrono e le animano giorno dopo giorno. Il tutto confluisce in un non-luogo, immerso nel buio più profondo e in un silenzio assordante rotto solo dalle deflagrazioni e dal rumore delle trivelle che penetrano la roccia; un non-luogo ove il tempo è azzerato e sospeso, le stagioni non esistono, il respiro è rallentato e i sensi alterati. Un non-luogo che, filtrato dallo sguardo della Pedicini, si fa astratto, trasfigurato e metafisico, non solo cloaca oscura o ventre claustrale che sottrae luce agli occhi, ossigeno alle narici e battiti al cuore.

Dal profondo ci mostra l’essere umano a lavoro, la lotta quotidiana per continuare a farlo (il segmento dedicato ai sette giorni di occupazione che permettono alla miniera di restare in attività in seguito al tentativo di chiusura, ricorda la protesta dei quattro operai saliti nell’agosto del 2009 su un carroponte a 20 metri d’altezza all’interno della INNSE, raccontati in Dell’Arte della Guerra di Luca Bellino o Silvia Luzi, oppure quella di un gruppo di operai della Vinyls in cassa integrazione che occupò il carcere dell’Asinara sempre nel 2009 per chiedere la riapertura degli impianti, al centro di Pugni chiusi di Fiorella Infascelli), ma soprattutto quel mix di adrenalina e paura che lo caratterizza. Tematiche, queste, che trasudano dai fotogrammi e dai quadri che di volta in volta prendono forma e sostanza sullo schermo, figli leggimiti di immagini dal forte impatto audiovisivo, ben confezionate grazie a un’estetica che colpisce ma non emoziona perché fine a se stessa, costruita per ammaliare e ubriacare lo sguardo del fruitore piuttosto che raccontare l’essenza di un lavoro e l’umanità di chi lo ha scelto, come Patrizia, quota rosa in un ambiente solitamente maschile (torna alla mente la Josey Aimes interpretata da Charlize Theron in North Country di Niki Caro).

È proprio tale scelta stilistica a mettere in discussione e a depotenziare l’interessante baricentro drammaturgico dell’opera. L’eccessiva reiterazione nella pulizia del movimento di macchina, l’abuso dei rallenti, la scrittura a tavolino che toglie spontaneità e verità alle persone tramutandole in personaggi ai quali è stato affidato un testo (l’uso continuo del voice over), cristallizza tutto e sottrae spessore. Di conseguenza, l’emozione cede il testimone alla narrazione asettica, così come la verità cede il passo alla sua rappresentazione fittizia. Esattamente il contrario di quello che accade nel primo dei cinque capitoli di Workingman’s Death di Michael Glawogger o in quella pietra miliare di Vittorio De Seta che risponde al titolo di Sulfarara). Forse nella testa della regista pugliese c’era la lezione di Werner Herzog su cosa è per lui la verità: «Sono sempre stato interessato alla differenza tra “fatto” e “verità”. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei “verità estatica”. È più o meno come in poesia. Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda, inerente verità, una verità estatica.[…] è misteriosa ed elusiva, e può essere colta solo per mezzo di invenzione e immaginazione e stilizzazione». Peccato che la Pedicini non riesca a metterla in pratica, gettando al vento una possibilità più unica che rara.

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Il trailer di Dal profondo.

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