Zanj Revolution

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Al di là dei contenuti, Zanj Revolution convince per un approccio estetico in continua e progressiva palingenesi. Lavorando su realtà e finzione senza smentire l’una o l’altra, Teguia opera un meticciamento infinito.

Ibn Battuta lavora come giornalista per un quotidiano algerino. Mentre segue i conflitti interni nel sud dell’Algeria scopre la sua vocazione ritrovando casualmente le tracce delle antiche e dimenticate rivolte contro il califfato degli Abbasidi, avvenute in Iraq tra l’VIII e il IX secolo. L’indagine lo conduce a Beirut, la città che un tempo era il simbolo delle speranze e delle lotte di tutto il mondo arabo. [sinossi]
Politicizzare le masse non è, non può essere,
fare un discorso politico. È accanirsi con rabbia
a far capire alle masse che tutto dipende da loro,
che se noi ristagniamo è colpa loro
e se noi avanziamo è pure colpa loro,
che non c’è demiurgo,
non c’è uomo illustre e responsabile di tutto,
ma che il demiurgo è il popolo
e le mani di un mago non sono in definitiva
se non le mani del popolo.
Frantz Fanon, I dannati della terra (trad. Carlo Cignetti)

Durante l’incontro con il pubblico al termine della proiezione di Zanj Revolution al Festival Internazionale del film di Roma (dove era presentato in anteprima mondiale), Tariq Teguia ha risposto con queste parole a una domanda giunta dalla platea: “I miei personaggi non sono vittime, reagiscono a ciò che succede. Il mio non è un film sulla difensiva, ma un film sull’offensiva, sulla costante spinta rivoluzionaria”.
Nella dialettica tra cinema rivoluzionario e cinema per la rivoluzione, Teguia sceglie una via di mezzo che non può non rimandare alla mente gli echi di Ici et ailleurs di Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, o (per ragioni diverse e uguali allo stesso tempo) The Red Army/PFLP: Declaration of World War di Masao Adachi e Koji Wakamatsu. Due film su/per/con la rivoluzione, atto sublime e raro in cui forma e sostanza si fondono, riducendo la propaganda a puro elemento della meccanica visionaria.

Non è facile soffermarsi su un’opera come Zanj Revolution, terzo lungometraggio diretto da Teguia, già autore di Rome Rather Than You (2006) e Inland (2008), perché il percorso lineare su cui sembrava muoversi la poetica del regista algerino scarta improvvisamente, almeno all’apparenza. Il forte coté politico nascosto nelle pieghe di Rome Rather Than You e Inland rappresentava ancora un punto di contatto doloroso e forse indispensabile tra l’esperienza artistica di Teguia e la sua terra natia. Due film in tutto e per tutto algerini, resoconti amari di una nazione che (mal comune in Africa) ha sperperato il potenziale rivoluzionario indipendentista in un percorso di chiusura nei confronti dell’esterno, come ribadito anche nell’ultimo quindicennio dalla gestione del potere di Abdelaziz Bouteflika.
Riparte da Algeri anche Zanj Revolution, salvo poi lanciarsi in un vortice internazionalista che mette insieme l’esperienza della rivolta panaraba (la cosiddetta “Primavera araba”), le manifestazioni di protesta in Grecia, la riflessione sul crollo dell’illusione palestinese nei confronti del Libano, l’Iraq di oggi e di ieri, e la mostruosa unghia capitalista pronta a ghermire e predare.

Al di là dei contenuti, che permettono per di più di venire a conoscenza della rivolta degli Zanj, gli “schiavi dalla pelle nera” della Persia degli Abbasidi che si ribellarono contro il califfo Abd al-Malik ibn Marwan mettendo a ferro e fuoco l’impero islamico per oltre dieci anni, Zanj Revolution convince per un approccio estetico in continua e progressiva palingenesi. Lavorando su realtà e finzione senza smentire l’una o l’altra – si veda il dialogo meravigliosamente “finto” a New York, tanto per fare un esempio – Teguia opera un meticciamento infinito. In questo modo le immagini scelte assumono un valore ulteriore, per un cinema che non “gioca” alla rivoluzione (come il testo teatrale situazionista su cui si impegnano gli studenti greci in occupazione) ma la mette in pratica nella sua essenza imperitura. Come la rivoluzione degli zanj fu sedata nel sangue pur senza impedire alle monete degli schiavi di posarsi sul letto del fiume Tigri, anche i gesti odierni, da Atene a Beirut fino ad Algeri e Baghdad, producono un’eco che non è possibile mettere a tacere.
La rivoluzione di Teguia si applica tra campi lunghi e desertici e sequenze concitate, immersioni nella folla che invade le strade e istanti di euforia collettiva – i riottosi MC5 a esplodere sullo schermo sulle note di Ramblin’ Rose – inseguendo quel fantasma che ancora oggi si aggira per l’Europa, senza riuscire a materializzarsi.

Ma anche una figura ectoplasmatica, impalpabile e a volte dimenticata nel tempo (e torna preponderante il senso del riferimento agli zangidi in rivolta) lascia una propria scia, indispensabile per proseguire la lotta. Tra Fanon e Godard, dunque, raccordi impossibili e traiettorie infinite di un cinema che si interroga sul proprio ruolo politico e visionario. Tra le molte esperienze fuori dall’ordinario vissute nella selezione 2013 di CinemaXXI, forse la più sconvolgente.

INFO
La pagina di Zanj Revolution sul sito del Festival di Roma.
Zanj Revolution al Festival di Rotterdam.
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