Sara

Sara

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Dramma sociale in tipico stile hongkonghese, Sara di Herman Yau mette in scena le disavventure della virtù di un’eroina contemporanea. Didattico, un po’ prolisso, ma comunque efficace.

Sarah, no time is a good time for goodbyes

Un articolo scottante su politici e affaristi non viene pubblicato. L’autrice dell’articolo, Sara, protesta con il suo capo-redattore e si lascia con il fidanzato, giornalista come lei. La donna entra in una crisi personale che la fa viaggiare nello spazio (va in Thailandia per indagare sulla prostituzione minorile) e nel tempo (ripensa al suo difficile passato). [sinossi]

Si resta sempre ammirati di fronte al cinema hongkonghese, alla varietà delle sue proposte e alla sua perfetta codificazione in generi che ancora resiste, nonostante tutto e tutti. Così capita che un regista eclettico come Herman Yau, che passa indifferentemente dalle arti marziali (Ip Man), a commedie sentimentali (Love Lifting), si ritrovi a presentare alla 17esima edizione del Far East un dramma sociale come Sara, che rientra perfettamente nella tradizione autoctona del genere, almeno a partire dagli anni Settanta con la direzione più realistica intrapresa dalla New Wave di registi come Ann Hui.
Ma se, ad esempio, lo scorso anno era capitato di imbattersi – sempre qui al Far East – in un dramma adolescenziale di prostitute sfruttate in cui la vicenda, da scabrosa, si trasformava – come da tradizione vittoriana – in pruriginosa (May We Chat, peraltro un film tutt’altro che disprezzabile), qui Herman Yau con Sara opta in qualche modo per l'”ascesi” dei mezzi, soprattutto della messa in scena, virando dunque ancora più direttamente nella direzione del racconto didattico, quasi-brechtiano.

Sara è una giornalista in ascesa che, sia pur scontrandosi con le codardie dei suoi superiori, ha il polso e l’audacia per raccontare storie scottanti sul tema della prostituzione. E anche lei in passato si è prostituita, o almeno si è data al miglior offerente, che le ha permesso di studiare, di farsi una vita e di avere delle ambizioni.
La vicenda in sé potrebbe immediatamente colorarsi di un approccio maschilista o di un determinismo spicciolo (Sara è stata violentata dal patrigno da ragazzina), ma Yau evita di cadere in queste trappole grazie alla particolare umanità con cui mette in scena il rapporto tra la giovane Sara e il padre di famiglia che, in segreto, decide di sostenerla.
Il rapporto tra i due si sviluppa attraverso conflitti e contraddizioni, ma non si può negare una sincerità e un affetto che prosegue negli anni. Per così dire, lo sfruttamento di classe viene qui in qualche modo addolcito dall’incarnazione di due personaggi che evitano di cadere in processi mentali troppo schematici. E, così, allo stesso tempo non vi è condanna e non vi è espiazione, non vi è cattolico castigo, cosa che invece sarebbe inevitabilmente avvenuta in qualsiasi film occidentale. Anzi, Sara – così come è stata salvata da quest’uomo incontrato per caso – cerca di fare la stessa cosa in Thailandia con una minorenne sfruttata. Ma le cose non sono così semplici…

Di fronte a un dispiegamento simbolico e di messa in scena che riesce a chiudersi con una certa efficacia, Sara però cade verso il finale in una certa prolissità (la protagonista che chiude i conti con i familiari) e soprattutto scivola in un paio di scene troppo patetiche tanto da risultare ridicole (in particolare il confronto con la madre). Ciò non toglie però che, al di là di qualche scivolone, un cinema così, come quello hongkonghese, mantiene una dignità e una coerenza che altri si sognano.

Info:
Il trailer di Sara su Youtube
La scheda di Sara sul sito del Far East
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