La lupa

Melodramma fiammeggiante ed eccessivo, La lupa di Alberto Lattuada è in realtà una profonda riflessione su dinamiche socio-antropologiche universali. Abissi della psiche tra erotismo e legge morale. Restaurato in 2k. Per Venezia Classici.

Donne che odiano le donne

In una piccola comunità del Materano, la Lupa è una donna di facili costumi che irretisce gli uomini di tutto il paese, per il sommo risentimento di mogli e fidanzate. Ha una figlia, Maricchia, che s’innamora di uno degli amanti della madre, Nanni Lasca. La tragedia è dietro l’angolo. Ispirato all’omonima novella di Giovanni Verga.[sinossi]

Una sensualità sfacciata e debordante, che irrompe e spacca, che innesca il suo annientamento nell’attimo stesso della sua rivelazione. Il melodramma, adottato senza troppi occultamenti, secondo un linguaggio al contempo sfacciato ed elegante, senza fermarsi alla superficie delle cose. Alberto Lattuada rilesse la novella di Giovanni Verga La lupa secondo una logica di ampliamento e decisa sterzata stilistica. Tenendo presente anche la sua traduzione teatrale, il film prese le mosse dalla base verghiana muovendosi in due direzioni: un collocamento più stringente nel contesto sociale (quello del secondo dopoguerra) e uno sguardo in profondità sugli assoluti psichici messi in gioco dal conflitto tra istinto e legge, tra Eros e repressione. Il risultato è un’opera fiammeggiante, che sposa l’eccesso audiovisivo con esiti entusiasmanti. Manierato quanto si vuole, ma anche dominato da un’idea di regia compatta e consapevole, capace di andare oltre le evidenti debolezze del trio d’attori protagonisti.

In primo luogo, lo spostamento della vicenda nella contemporaneità inserisce la storia in un discorso socio-politico di pregnante significanza, in reciproca simbiosi con l’universalità dei conflitti evocati. In una società italiana alle soglie della ricostruzione postbellica, scontrarsi con la morale perbenista riflette dinamiche sociali di esclusione/inclusione che da sempre regolano antropologie a tutte le latitudini. È il principio del lancio dalla rupe dei figli mal nati, praticato nella Grecia antica: come dice Ciro in Rocco e i suoi fratelli (1960) parlando di suo fratello Simone, “Se un frutto non è sano, lo dobbiamo separare dagli altri. Come quando mamma ci fa pulire le lenticchie”. Così, ne La lupa di Lattuada s’innesca una spietata catena di azione/reazione, dove al rifiuto sociale segue la vendetta, fino all’ultima stazione dell’annientamento. Solo dopo la sparizione della “cattiva lenticchia” dal cesto, la piccola comunità in mezzo ai sassi di Matera può richiudersi su se stessa, e l’apparente pace sociale è di nuovo garantita soltanto dalla negazione degli istinti (e in senso lato, della diversità). È l’incontro di una cultura ancestrale (l’asprezza del mondo contadino) con i nuovi perbenismi catto-industriali della ricostruzione. Il progressismo sta solo nel “bene comune”, frainteso con l’illusione costruita ad arte della mobilità sociale tramite l’incontro con le prime forme di lavoro organizzato (la fabbrica di tabacco in paese, in cui le donne sgomitano per poter avere un impiego). Ora, labora e rispetta la morale comune disprezzando chi la rifiuta, e le porte del futuro progresso ti si apriranno davanti: uno schiacciasassi sociale che lascia sul campo qualche vittima, ma poco male. Le “lenticchie buone” sono tutte sane e salve.
Tale corposa materia politico-universale è veicolata tramite gli strumenti espressivi del melodramma, a cui Lattuada aderisce senza lasciare mai spazio a cenni di dichiarata analisi o critica sociale.

È la vicenda di passioni estreme, scatenate dalla presenza in paese della diabolica Lupa, che tiene in sé gli elementi stessi di tale riflessione, collocata in un territorio di conflitti universali. La lupa, donna solitaria che ha avuto una figlia, Maricchia, seduce uomini in tutto il paese, sprezzante verso il giudizio degli altri e proporzionalmente odiata da donne e mogli della comunità, molte di esse raccolte a lavorare nella locale fabbrica di tabacco. La donna e la figlia vivono isolate, e i paesani mostrano solo un po’ di pietà per Maricchia, a cui è toccata in sorte una madre tanto scellerata. A far scoppiare il dramma subentra uno degli amanti della Lupa, il soldato Nanni Lasca, che conosce per caso Maricchia e se ne innamora. Il triangolo “aggravato” (madre e figlia che si contendono lo stesso uomo) avrà ovviamente uno sviluppo tragico.
A irrobustire la potenza melodrammatica del film subentrano tòpoi narrativi che riconducono una volta di più La lupa a una dimensione mitica e fuori dal tempo: il divorar figli che dai miti greci giunge fino al conte Ugolino, e che qui s’intreccia con la disperata condizione della donna che rifiuta d’invecchiare invidiando la giovinezza della figlia. La Lupa è un personaggio platealmente sgradevole e livoroso, a cui tuttavia vanno in piena evidenza tutte le simpatie di Lattuada e dei suoi sceneggiatori (tra di essi, troviamo anche Antonio Pietrangeli e non sembra affatto casuale, visto che la sua carriera di filmmaker si soffermerà poi a raccontare gli effetti devastanti dei nuovi processi produttivi sull’antropologia italiana, soprattutto femminile). La condizione di “donnaccia” colloca la Lupa, incarnata da Kerima in modo perfettamente funzionale, nella dirompente posizione di cartina di tornasole: è una reietta, e in quanto tale amplifica di riflesso tutto l’oscurantismo della comunità che la rifiuta. Tema, del resto, molto caro ad Alberto Lattuada, che all’ipocrisia sociale dedicherà anche il successivo La spiaggia (1954). Ciò s’inscrive in una macrostruttura narrativa che si articola tra i poli estremi di purezza e perdizione, un conflitto tra dimensioni assolute che a sua volta ritroviamo spesso nella filmografia lattuadiana (basti ricordare la proverbiale Anna di Silvana Mangano, che come ricordava Nanni Moretti in Caro diario “Prima è suora, poi balla il mambo”).

Stavolta però, complici due personaggi positivi, tanto “vittime sante” quanto sbiaditi (e gli attori coinvolti, Ettore Manni e May Britt, lo sono altrettanto), tutta l’empatia è riservata all’arrogante spavalderia della Lupa, in funzione di un’interessante torsione emotiva nella partecipazione spettatoriale. È probabile che al pubblico del tempo la Lupa lattuadiana apparisse una donnaccia e nient’altro, una “cattiva” totale da fiaba o feuilleton. Ma in realtà Lattuada la racconta tutt’al più come una vittima di se stessa, divorata dalla sua medesima insaziabile passione (e, con bella scelta espressionista, essa morirà in mezzo alle fiamme di un incendio: chiara materificazione del fuoco interiore che la tortura incessantemente), così come dà estremo rilievo al violento rifiuto della società nei suoi confronti. Ne è di nuovo prova soprattutto lo scioglimento, in cui la donna è sottoposta a un vero e proprio linciaggio di massa (dispiace dirlo, ma è evidente che Tornatore abbia preso da qui ispirazione per Malèna, 2000).
L’estrema modernità di Lattuada risiede proprio nell’additare i violenti meccanismi di inclusione/esclusione sociale nei confronti di un personaggio in buona parte negativo. Così, mentre sullo schermo passa un melodrammone urlato ed eccessivo, Lattuada racconta anche secoli di storia. Dacché l’uomo è comparso sulla Terra, ha iniziato a darsi leggi morali, ha represso la sensualità e conseguentemente ha emesso condanne sociali.

Info
La scheda di La lupa sul sito della Biennale.
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