A Hole in the Head
di Robert Kirchhoff
Elegiaco, sofferto e profondamente umano, A Hole in the Head è un mosaico di volti, luoghi e lingue che cerca di restituire almeno una memoria alle vittime del Porrajmos, il genocidio gitano ai tempi dell’Olocausto. Al Trieste Film Festival in concorso documentari.
Un solo grande silenzio
L’Olocausto ha lasciato un segno sul corpo e nell’animo dei Rom e dei Sinti sopravvissuti. A settant’anni dalla fine della guerra, volti e storie si rincorrono, fra una memoria che si sta perdendo e la profonda dignità di un popolo. [sinossi]
“I figli cadevano dal calendario
Jugoslavia, Polonia, Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di Maggio
fra le fiamme dei fiori a ridere, a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere”
Fabrizio de André, Khorakhané (a forza di essere vento)
“Com’è possibile vivere con un buco in testa?”. “Non è un buco, è una cicatrice”. Una cicatrice vecchia di settant’anni eppure mai rimarginata, una cicatrice storica, umana, fisica. Da quando il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa penetrarono nei cancelli di Auschwitz, gli occhi del mondo si sono drammaticamente aperti sugli orrori della Shoah. Un genocidio, quello attuato dai nazifascisti, che causò oltre 15 milioni di morti nel delirante sterminio sistematico degli ebrei, degli omosessuali, dei portatori di handicap, degli oppositori politici, dei malati di mente. E degli “zingari”, che anche al momento della liberazione, mentre veniva istituito il Giorno della Memoria e la popolazione ebraica riceveva le scuse del mondo e lo Stato di Israele a mo’ di compensazione, finirono per essere considerati ancora una volta esseri umani di serie B.
Oltre mezzo milione di persone, fra Rom e Sinti, hanno perso la vita nel Porrajmos, letteralmente “divorazione”, attuato nei loro confronti dai nazifascisti nei campi di sterminio, ma non è possibile avere un dato certo nemmeno sul loro numero, perché le fosse comuni in cui sono stati indegnamente sepolti, a differenza di quelle “dedicate” ad altri gruppi etnici, non sono mai state aperte. E nessun gitano è mai stato nemmeno chiamato come testimone nei vari processi a carico dei gerarchi, nemmeno a Norimberga, come se il loro ricordo fosse svanito nel vento, come se non fossero degni di memoria esattamente quanto gli altri, come se del loro caso non fosse necessario parlare. Eppure, anche Rom e Sinti sono stati perseguitati, tatuati, rasati, utilizzati per esperimenti ai quali nemmeno il più deviato fra gli scienziati pazzi presenti in letteratura avrebbe mai osato pensare. Anche Rom e Sinti sono stati destinati alle camere a gas e ai forni crematori, sterilizzati in massa o, ancora peggio, fatti partorire per avere a disposizione cavie neonate. Anche Rom e Sinti hanno sofferto e perso la vita, coinvolti nell’atto più grave che l’umanità ricordi. Per poi, quando gli orrori sembravano finiti, essere ancora una volta sottovalutati, umiliati, dimenticati e spesso derisi, lasciati soli in attesa che la Storia, come la coltre di neve che ricopre, spessa e gelida, i cimiteri e le lapidi, stendesse il suo velo di impietoso silenzio.
A Hole in the Head arriva dove la memoria si sta estinguendo per tentare di restituirla a un intero popolo, sopravvissuto alle atrocità subite forse proprio perché forte di una profonda dignità nomade e libera. È prima di tutto una mappatura, il nuovo film del cineasta slovacco Robert Kirchhoff presentato in concorso documentari al Trieste Film Festival 2017, è un mosaico elegiaco che si pone come profondissimo atto di rispetto, come un omaggio accorato e mai sensazionalistico nei confronti di tutta una cultura millenaria, come un monito ancestrale che chiede uguaglianza almeno nel ricordo e nel dolore.
È una babele di volti, di lingue e di ricordi atroci, è un viaggio nello spirito nomade che, con eguale spirito nomade, attraversa mezza Europa da Bratislava a Berlino, dalla Francia a Zagabria, dalla Polonia alla Serbia, dalle case ai cimiteri, dai capannoni alle roulotte, alla ricerca di parte degli ultimi testimoni rimasti in vita di un orrore che sta drammaticamente perdendo sempre più la sua forza respingente, e che con il tempo si sta museificando come l’impressione di un qualcosa di lontano. Mentre, in giro per il mondo, tornano alla ribalta le posizioni più reazionarie, populiste e xenofobe, e gli uomini continuano a rispondere alla violenza con altra violenza in una spirale forse infinita.
Kirchhoff, conscio dell’impossibilità di ricostruire in maniera scientifica una fetta di genocidio rimossa dagli archivi e dalle memorie, gira per l’Europa alla ricerca di frammenti, fili da tentare di riannodare fra chi ancora porta sul proprio corpo i segni fisici e psicologici del sopravvissuto. A Hole in the Head è quindi un film di ricordi, di emozioni, di continue ellissi geografiche che intelligentemente, in pieno spirito “zingaro”, non vengono introdotte da didascalie, come ad affermare da un lato l’inafferrabilità di una storia ormai nebulosa e sfumata, e dall’altro come non conti il posto in cui ci si trova e nemmeno l’etnia a cui si appartiene, ma solo gli esseri umani che ci vivono e che aprono il loro passato, con sincerità e strazio, alla macchina da presa.
C’è chi ha una svastica che emerge dalla scatola cranica, visibile e in rilievo dopo chissà quante ore di pressione con le punte più disparate su quella che era la testa di un bambino, c’è chi ha assistito al massacro della propria famiglia ed è l’unica sopravvissuta di un intero villaggio, c’è chi gestisce il Museo Rom in Serbia e parla delle origini tzigane di Antonio Banderas. C’è la cultura radicata di un popolo non stanziale, c’è il loro estremo rispetto per i morti, c’è il ricordo di quando per recarsi al cimitero, a causa di un confine insensato, serviva il passaporto. E soprattutto c’è Rita, strappata alla madre a nemmeno tre settimane di vita e sottoposta, insieme alla gemella che a differenza sua non è sopravvissuta, a iniezioni in testa e sul retro degli occhi per tentare di farglieli diventare azzurri.
Racconta la sua esperienza nelle scuole berlinesi, parla delle sue continue emicranie, parla dei suoi problemi di vista, parla di come la sua semplice appartenenza a un popolo l’abbia trasformata, in sostanza ancora prima di nascere, in mera carne da macello, una “zingara” da cercare di arianizzare. Mostra agli studenti il suo numero tatuato e le radiografie che evidenziano le barbarie subite, poi torna a casa e ricorda di come la madre, dopo la liberazione, le abbia tenuto nascosta per molti anni la verità. E di come, una volta conosciuto il suo passato, Rita non abbia potuto fare altro che metabolizzarlo, ricordarlo e raccontarlo, in modo che diventasse un monito per le genti, l’urlo di dolore di un popolo, l’apice della dignità di chi non si è mai pianto addosso come vittima, ma ha trovato la forza di andare avanti e di vivere la propria vita.
Come quello di Rita, A Hole in the Head è un buco in testa che forse si può cicatrizzare, e che anzi fisicamente lo ha fatto già da diversi anni, ma che (continuare a) dimenticare sarebbe atto criminale, specialmente in questo momento, specialmente in questa Europa. Un’Europa in cui non si è più “solo” vittime storiche di un qualcosa di settant’anni fa, ma in cui è la Gendarmerie della Francia di oggi a entrare senza mandato nella roulotte di Raymond, 90 anni, per picchiarlo senza un motivo e arrestargli i figli che semplicemente tentavano di difenderlo. La denuncia dell’anziano Rom, ovviamente, verrà ben presto archiviata dalle autorità e finirà per essere dimenticata, come un altro granellino nel vorticare della Storia, come altro un momento di quotidiana brutalità che si somma a tanti altri momenti di quotidiana brutalità, destinati a essere ancora una volta ricoperti dalla spessa coltre di neve che continua a cadere placida e incurante.
È sempre rischioso approcciarsi ai temi che vorticano intorno all’orrore degli stermini nazisti, temi intorno ai quali la produzione è tanta da fare ormai coincidere la Giornata della Memoria con una serie di uscite cinematografiche a tema, e sui quali è molto semplice, come dimostrato dalla diffusa mediocrità all’interno di questi titoli solo di rado interrotta da qualche eccellenza, finire per incartarsi nella retorica, nel buonismo spicciolo, nel moralismo o semplicemente nella piattezza, quando non nella drammatica incoerenza di chi è pronto a piangere un’etnia e non l’altra.
A Hole in the Head accetta consapevolmente questo rischio, e si stacca profondamente dalla mediocrità di un Nebbia in agosto o di un Il viaggio di Fanny, entrambi in sala in questi giorni in un numero di copie esponenzialmente maggiore rispetto a quelle in cui è stato distribuito l’invece eccellente Austerlitz di Sergei Loznitsa, trasformando gli incontri, le testimonianze e le interviste in un’elegia elegante e potente, che fa dell’etica più granitica la sua arma poetica e cinematografica.
Non è un film sui Rom, e nemmeno un film sull’Olocausto. Quello di Kirchhoff è un film sull’uomo, sulla dignità più intima, sulla necessità di tornare semplicemente persone, e non categorie etniche e sociali. È un film sulla memoria e sul dolore, un film fatto di volti e di storie vissute sulla propria pelle, un film fatto di cicatrici e di occhi lucidi, ma anche un film fatto di musica, tradizione, appartenenza, dignità, vitalità e poetica. È un film commosso e profondamente rispettoso, lontano dalla pornografia del dolore, capace di lasciare il proprio necessario spazio a chi è intervistato. Quando i ricordi si fanno più dolorosi, l’umana vicinanza anche fisica ai testimoni stacca dai volti ai luoghi, coprendo quella giusta distanza filmica necessaria per non diventare invasivi o morbosi. Ma, dopo aver mantenuto uno sguardo necessariamente più pudico sugli istanti di più ancestrale intimità, A Hole in the Head torna sempre e necessariamente sugli esseri umani. Per non abbandonarli mai (più), e continuare insieme a squarciare il velo di un silenzio assordante.
Info
La scheda di A Hole in the Head sul sito del Trieste Film Festival.
Il trailer di A Hole in the Head su Vimeo.
Il sito ufficiale di A Hole in the Head.
- Genere: documentario
- Titolo originale: Diera v hlave
- Paese/Anno: Repubblica Ceca, Slovacchia | 2016
- Regia: Robert Kirchhoff
- Sceneggiatura: Robert Kirchhoff
- Fotografia: Juraj Chlpík
- Montaggio: Jan Daňhel
- Colonna sonora: Miroslav Tóth
- Produzione: atelier.doc, HITCHHIKER Cinema
- Durata: 90'