Per un figlio

Arriva nelle sale italiane, dopo essere stato presentato in concorso alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro nel 2016, Per un figlio, l’opera d’esordio dell’italiano di origine cingalese Suranga Deshapriya Katugampala; un film non solo struggente e doloroso nel suo scandaglio del quotidiano, ma che assume una valenza politica a dir poco dirompente in un’Italia che continua a chiudere gli occhi di fronte alla realtà, e insiste nell’utilizzare il termine “integrazione”, che presuppone di base il difficile confronto di culture “diverse”.

La seconda generazione

Provincia di una città del nord Italia. Sunita, una donna cingalese di mezz’età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante e un figlio adolescente. Fra loro regna un silenzio pieno di tensioni. È una re- lazione segnata da molti conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un’ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per vivere in un paese al quale non vuole appartenere. [sinossi]

Per un figlio, che arriva nelle sale a quasi nove mesi di distanza dalla prima proiezione, in concorso alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, non è un film comune, e non merita il silenzio cui rischia invece fortemente di andare incontro. Lo si era già notato proprio poco meno di un anno fa, sulla riviera Adriatica, nei pressi della Palla di Pomodoro; Per un figlio è un’opera prima dolorosa, a tratti straziata, ma che poco o nulla ha a che spartire con il microcosmo del dramma borghese nei cui solchi si è adagiata gran parte della produzione italiana che non vuole sgomitare corpo a corpo nel calderone delle commedie e allo stesso tempo non si trova a suo agio neanche nelle – rare – digressioni nel genere.
No, Per un figlio, pur con imperfezioni inevitabili con ogni probabilità quando si ha a che fare con un esordio dietro la camera, non assomiglia alla gran parte dei suoi simili. Questo lo rende senza dubbio affascinante agli occhi di chi non si lascia sopraffare dalla pigrizia intellettuale; perché Per un figlio rischia, ed è paradossale, una ghettizzazione preventiva proprio per la sua natura, e per quel nome che campeggia alla voce “un film di”: Suranga Deshapriya Katugampala. Un regista che, per vocazione alla semplificazione, quasi tutti i media che hanno riportato la notizia della sua partecipazione a Pesaro hanno accompagnato a una collocazione geografica: lo Sri Lanka. Così è stato tutto un fiorire di “regista cingalese”, “giovane autore srilankese”, e via discorrendo. Osservazioni, c’è da esserne certi, fatte in tutta sincerità, senza alcuna intenzione di dolo. Ed è questo che è ancora più grave…

Per un figlio, opera prima diretta dal giovane Suranga Deshapriya Katugampala, è un oggetto inclassificabile in una nazione che fa ancora fatica ad accettare che figli di persone giunte da altri paesi possano essere considerati “italiani” a tutti gli effetti. Una nazione senza ius soli. Una nazione senza una reale concezione di condivisione dello spazio, di relazione con l’altro da sé, unico modo per iniziare una vera e proficua relazione con se stessi, con le proprie pulsioni, con la propria cultura, o come la si vuol chiamare. Suranga Deshapriya Katugampala è un regista italiano; anzi, è uno dei più promettenti esordienti degli ultimi anni. Per un figlio è un film italiano, che parla italiano anche quando usa altre lingue. Se non si parte da questo concetto, è anche inutile provare ad andare avanti.
Certo, la biografia di Katugampala parla di un luogo di nascita, lo Sri Lanka, abbandonato da bambino insieme ai genitori per cercare fortuna, o comunque una vita migliore, in Italia. In una nazione che è sempre più al centro di fenomeni migratori – spesso con esiti tragici, come fatti di cronaca più o meno recenti possono testimoniare – è ancora raro imbattersi in registi (e artisti nel senso più complessivo del termine) non italiani di nascita, o magari immigrati di seconda o terza generazione. Un problema che in pochi si pongono, ma che in realtà sta a sottolineare la mancanza di una integrazione reale; l’immigrato, in Italia, non ha voce, perché non gli viene concessa una propria identità. L’immigrato, in Italia, è destinato a essere comunque subalterno al sistema culturale. Può essere messo in scena, non di rado ricorrendo a stereotipi dal fastidioso retrogusto coloniale anche quando l’intento dovrebbe essere radicalmente opposto, ma non ha ancora il diritto di mettersi in scena.

Katugampala, italiano di seconda generazione, questo diritto lo rivendica, e se lo prende in tutta la sua forza. Racconta una storia che è in maniera inevitabile legata alla propria eredità genetica, ma la sovverte, la rende universale, elimina qualsiasi riferimento che non sia leggibile da entrambi i lati della vicenda. Il lato A, quello di Sunita, la donna cingalese che vive a Verona facendo la badante, e il lato B, quello di suo figlio, un adolescente che si sente italiano in tutto e per tutto, frequenta una compagnia di ragazzi del posto. Il conflitto è molteplice, in Per un figlio, e quasi sempre irrisolvibile. C’è un conflitto generazionale che è non solo dettato dalla diversa età e dalle diverse esperienze in una società del Capitale che arranca dietro la crisi economica; c’è un conflitto generazionale che è conflitto di appartenenza, e di accettazione del proprio ruolo, del proprio corpo all’interno di un sistema di per sé respingente, e solo in maniera occasionale attrattivo.
Tutti sono stranieri, nel film di Katugampala, tutti sono sconosciuti, tutti esperiscono un’esistenza solinga che non accetta l’altro, e non sa come relazionarvisi. Se il cingalese è un linguaggio oscuro ai più, cosa dire del veronese che ha bisogno a sua volta dei sottotitoli per essere compreso su tutto il suolo nazionale? Un’esistenza fatta di reiterazioni continue, e che il regista rende con una monotonia che diventa ansiogena, agendo sottopelle, scontrando lo spettatore con il reale. Sunita si sposta in motorino, lei e suo figlio vengono pedinati dalla videocamera, mangiano in silenzio, non si parlano. Non si guardano neanche, ma si spiano, si controllano a vicenda.

Per un figlio si incunea in un microcosmo senza patria (concetto che non riguarda solo i protagonisti, ma si allarga ancor più agli italiani da più generazioni, come sottolinea il personaggio dell’anziana donna a cui Sunita fa da badante) e senza una direzione, smarrito, disperso e alla ricerca di un senso. Katugampala mantiene sempre la giusta distanza, e non ricorre mai a uno sguardo giudicante. Osserva, pone la videocamera all’altezza di un mondo disfatto e cerca di rintracciare quei legacci che ancora avvinghiano le une alle altre le varie parti. Per ricordare che più che di integrazione, che comporta in maniera inevitabile la sudditanza di una cultura rispetto a quella egemone, e quindi omologante, è necessario iniziare a parlare di confronto, di rapporto, di reale relazione umana e sociale. E dunque politica. Un piccolo film come Per un figlio compie un passo gigantesco verso la direzione giusta; un passo raro. Un passo tentato solo in modo occasionale prima di lui. Un esordio che non può essere considerato come tutti gli altri, perché è (purtroppo) fuori norma, e che va difeso, protetto, e utilizzato come testa d’ariete per il futuro prossimo. Se c’è un modello virtuoso del fare cinema, Per un figlio di Suranga Deshapriya Katugampala ne fa sicuramente parte.

Info
La scheda di Per un figlio.
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