La principessa e l’aquila

La principessa e l’aquila

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Al Biografilm, dopo essere già stato presentato al Trento Film Festival, La principessa e l’aquila è una storia di emancipazione femminile e di rapporto uomo-natura nella lontana Mongolia. Un documentario romanzato che già ha spopolato al botteghino americano.

Dove volano le aquile

Sulle montagne della Mongolia, l’addestramento dell’aquila è una tradizione millenaria esclusivamente maschile che si tramanda di padre in figlio. Ma Aisholpan non ci sta: ha solo tredici anni, eppure ha già deciso di diventare la prima addestratrice di aquile del Paese. Sotto la guida esperta di suo padre, la ragazza supererà ogni ostacolo che le si porrà di fronte, imparerà ad accudire la sua aquila e a farla volare, fino a dimostrare tutto il suo talento partecipando al Festival annuale che mette in competizione i più grandi addestratori della Mongolia. [sinossi]

Una storia di emancipazione femminile, in una società rurale della lontana Mongolia, in villaggi che vivono in stretta interdipendenza con l’imponente natura in cui sono immersi, dove tutti i personaggi, dalla tipica carnagione paonazza, indossano abiti tradizionali fatti di pelliccia. La simbiosi più straordinaria di questa popolazione è quella con le aquile, catturate quando sono ‘aquilotti’ nei loro nidi e poi addestrate alla caccia. In fondo salvate perché, come è noto, nei nidi di questi rapaci si pratica la selezione naturale e il cucciolo più debole viene eliminato. E poi, come si vede all’inizio di La principessa e l’aquila, presentato al Biografilm, dopo sette anni di cattività le aquile sono rimesse in libertà, restituite alla natura come chiusura di un ciclo. E come indice di una cultura antica che si serve della natura avendone al contempo un grande rispetto.

Il documentarista inglese Otto Bell, venuto a conoscenza di questa bambina prodigio, Aisholpan, da un fotografo, si è precipitato in Mongolia a riprenderne la storia, seguendola fino al momento catartico della gara tra addestratori di rapaci, dove trionfa. Una storia che, come da lui dichiarato, ha avuto la fortuna di riuscire a seguire fin dall’inizio, senza quindi aver bisogno di ricorrere in modo massiccio a ricostruzioni del pregresso con filmati di repertorio o in altri modi.
Il risultato di La principessa e l’aquila è comunque artificioso. La forma scelta dal regista non è quella del reportage, e nemmeno quella del documentario didattico, bensì arriva a una contaminazione di documentario e fiction laddove il confine tra l’uno e l’altra risulta molto labile. La tradizionale voce off dei documentari naturalistici o etnografici è rappresentata da una narrazione in terza persona che però è minima. Predominano invece le voci off in prima persona, l’io narrativo, dei diversi personaggi. Il che deve aver ovviamente comportato un lavoro di drammaturgia e di sceneggiatura. E la narrazione passa anche attraverso i volti, come quelli dei saggi del villaggio, scornati per la vittoria di Aisholpan dopo che avevano dichiarato, intervistati, la loro contrarietà al fatto che un ruolo maschile, come l’addestratore di aquile, potesse essere preso da una donna.
In questo contesto spicca il momento, straordinario e vero, della cattura dell’aquilotto. Un momento lungo, che riflette tutte le esitazioni e i rischi di quella situazione. Dove le inquadrature di Aisholpan e del padre in arrampicata sulla montagna, si alternano a quelle tremolanti riprese dalla ragazzina con una telecamerina, come in una sua soggettiva. Una scena notevole e vera, con l’unico dubbio del ritorno minaccioso di mamma aquila, dove avrebbero potuto usare un filmato di repertorio per drammatizzare ulteriormente la situazione.

La principessa e l’aquila è anzitutto un lavoro ottimamente confezionato. Dove protagonisti sono gli sterminati paesaggi naturali della Mongolia, spesso in vedute cartolina, con campi lunghissimi, dove gli esseri umani appaiono come dei puntini. Dove il tutto appare stucchevole ed edulcorato, dove le uccisioni degli animali, come i conigli e le volpi, secondo pratiche assolutamente normali nella civiltà contadina, non vengono mostrate, per andare incontro alla sensibilità del pubblico occidentale. In fondo però Otto Bell non è Jean Rouch, ogni pretesa di documentazione etnografica o antropologica non gli appartiene. La principessa e l’aquila è da vedere per quello che vuole essere, una fiaba. E come tale avrà grande successo di pubblico.

Info
La scheda di La principessa e l’aquila sul sito del Biografilm.
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