L’angelo del male
di Jean Renoir
L’angelo del male, che Jean Renoir traduce in immagini partendo da La bête humaine di Émile Zola, è ancora oggi un film morboso e inquietante, in grado di perturbare a dispetto dei suoi 81 anni di età. Un film che anticipa alcune derive del noir d’oltreoceano e le sposa a una lettura psicologica che è anche sociale e politica. Con un immenso Jean Gabin. All’interno della retrospettiva organizzata da La farfalla sul mirino insieme a Azienda Speciale Palaexpo, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionae, e Institut français Italia.
Corre, corre, corre la locomotiva…
Jacques Lantier è un macchinista condannato alla solitudine per via di istinti omicidi e smanie improvvise che non sa controllare: assieme al suo unico vero amico, il fuochista Pecqueux, riesce a trovare un po’ di pace sulla “sua” amata locomotiva, che ha battezzato Lisa. Una notte, però, su di un treno incrocia lo sguardo di Séverine, la bella e giovane moglie del vice capostazione… [sinossi]
Secondo film di Jean Renoir, dopo Nanà (1926), tratto dal ciclo di romanzi I Rougon-Macquart di Émile Zola, L’angelo del male (che nel titolo originale mantiene lo stesso del libro ovvero La bête humaine) è ancora oggi un film morboso e inquietante, in grado di perturbare a dispetto dei suoi 81 anni di età e di una messa in scena che inevitabilmente procede, assai più delle pagine di Zola, per allusioni e sospensioni. L’angelo del male si inserisce, all’interno della filmografia del regista, nel periodo dei capolavori più noti, dopo La grande illusione (1937) e prima de La regola del gioco (1939), in anni in cui Renoir si era inoltre molto avvicinato al partito comunista francese. Riducendo o togliendo alcune sottotrame e variando parte del romanzo di Zola, Renoir (che firma anche la sceneggiatura) si concentra principalmente su due voci: la prima, la melodia, è il magnifico ritratto di Jacques Lantier (il sublime Jean Gabin) che ha nel sangue “generazioni e generazioni di ubriachi”, avi che gli hanno trasmesso una malattia indicibile cui non può sottrarsi e che lo porta a stati di psicosi, a momenti in cui si sente “come un cane rabbioso che ha voglia di mordere” o a momenti di tristezza, che lo rendono infelice senza alcuna ragione apparente. Il naturalismo sociale, cupo, “comportamentista” e privo di riscatto di fine Ottocento, incontra nel Lantier di Renoir un afflato ontologicamente tragico e disperatamente fatale da cui tanto noir trarrà ben presto ulteriori ispirazioni. Il secondo pilastro del film è un costante e sornione attraversamento delle classi sociali, dei loro comportamenti “politici” o pubblici, delle loro pulsioni erotiche, dei loro rimossi e delle loro necessità di nascondimento: questo secondo motivo, un basso continuo tra le pieghe di tutti gli avvenimenti, forse motiva la scelta di ritrarre del tutto bonariamente il fuochista Pecqueux (Julien Carette), sincero amico di Lantier, unico elemento intimamente famigliare e positivo in un contesto di sopraffazioni, privilegi, ingiustizie e vizi. Sulla locomotiva ribattezzata “Lisa”, i due lavorando condividono un piccolo mondo, una piccola cellula di aggregazione tra pari che, però, si disgregherà restando orfana del suo macchinista, sopraffatto dall’impossibilità di spezzare i legami atavici e affrontare un altro futuro.
Lisa, del resto, è l’altro elemento centrale del film, tanto che L’angelo del male divaga e respira, letteralmente “prende aria”, in furibonde riprese sulle rotaie, su quella tratta Parigi-Le Havre in cui Gabin-Lantier dà indicazioni al compagno fischiando, come nel magistrale inizio in cui i due ricordano una coppia comica del cinema muto, lontanissimi dalle abiezioni inconfessabili che, una volta messi i piedi giù dal treno, si andranno via via affermando come struttura individuale quanto collettiva. La locomotiva dal nome di donna, in movimento sul suo tracciato da cui Lantier scorge la natura, il verde, gli animali tra l’erba, è casa accogliente per il protagonista che si sente protetto nell’essere in transito tra una stazione e un’altra, tra un approdo di spaesamento possibile e quello successivo, e che si sente protetto anche dalla sicurezza del poter controllare la macchina, un’altra bête ma mansueta e obbediente nelle sue mani. Da Lisa, Renoir ci fa conoscere lo sguardo di Lantier grazie a carrellate e movimenti che uniscono – come vuole il realismo poetico di cui il film porta decisamente alcuni tratti – gli occhi dello spettatore a quelli del macchinista, a suo agio nei gesti del lavoro ma pure in fuga dai turbamenti che si attivano di fronte al desiderio, alla donna, come in una possessione horror e vampiresca. Se nel desiderio di contenimento del protagonista c’è la consapevolezza, a tratti stoica, della propria malattia umana, nell’erotismo impossibile da sfuggire c’è la resa di Lantier di fronte alla propria condizione esistenziale. Il suo impulso a uccidere la donna è, a dire il vero, il più estremo, puro e autodistruttivo tra gli accomodamenti della lotta tra pulsioni e controllo inscenati nel film, differenti tra loro a seconda del “rango” e dello status. Se, appunto, l’unica fonte di comprensione resta Pecqueux, con la sua ordinaria/ordinata moglie ma pieno di sarcastica saggezza e ostentato sapere quando si tratta di parlare di erotismo, per il resto la costellazione apparecchiata da Renoir appare tetra come una notte senza luna: al piano più alto della perversione troviamo il ricco e anziano Grandmorin (Jacques Berlioz), una sorta di orco che molesta e fa sue le servette e le figlie delle domestiche, protetto negli abusi perpetuati negli anni dal proprio potere. Tra le precocemente abusate c’è Séverine (Simone Simon), sposata con Roubaud (Fernand Ledoux), marito geloso e possessivo, smodato e vizioso (si veda l’accanirsi sul tavolo da gioco quando la moglie smetterà di darsi a lui), di certo socialmente al di sotto di Grandmorin ma al di sopra del macchinista e del fuochista, essendo vice capostazione. Presentato – nella prima scena “a terra” dopo l’incipit folgorante del viaggio in treno – come una persona giusta (bacchetterà un importante uomo d’affari per un torto commesso sul treno), Roubaud incarna una piccola borghesia aspirazionale che possiede la casa più graziosa che può, la moglie più bella, vuole una vita “come si deve”, ma impazzisce nella rivalsa su un altro maschio, tanto da eliminare il vecchio che ha stuprato da ragazzina Séverine. Forte del proprio status, genericamente ben visto, l’uomo non verrà assicurato alla giustizia. Al suo posto verrà preso un poveraccio (interpretato dallo stesso Jean Renoir) che però aveva, come movente possibile, proprio la stessa motivazione di Roubaud: la sua giovane amata d’un tempo era stata abusata dal bavoso Grandmorin, ma il livello infimo del pover’uomo (che oltre tutto era stato già in galera per un episodio di violenza) porta senza remore a farlo incarcerare. Di certo la violenza e la pulsione accecante scorre come un fiume inarrestabile, dall’alto al basso della piramide, devastando le fanciulle o perpetuando nel presente il passato che non passa mai.
Se l’altro affetto di Lantier è la sua “madrina”, che di lavoro fa non a caso la guardiana di un passaggio a livello (d’altro canto la moglie di Pecqueux fa la guardiana dei gabinetti della stazione Saint-Lazare di Parigi: ovvero due “punti fermi” tra un transito e l’altro), la figlia poco più che adolescente della donna, da cui Lantier è attratto, desta in lui il desiderio di uccidere ma non la fascinazione per la ferita interiore che l’uomo troverà invece in Séverine, vittima che ha imparato ben presto l’arte di mentire e sedurre pressoché ogni uomo in un suo, ancora una volta, personale assetto tra danno patito ed istinto di sopravvivenza. Se la donna sente che, prima o poi, verrà uccisa da un uomo e si rammarica di aver conosciuto tante nefandezze (sicuramente sessuali) fin da piccola, nutre però ancora una voglia autentica di erotismo, un desiderio che unito alla sua ferita interiore farà davvero perdere il controllo a Lantier. Il cui “sogno” è quello di guarire assieme da qualcosa che neppure si sa nominare, ma che si ha in comune. Le cose non andranno così, perché nel “girone” dei Lantier si può giungere al massimo all’uccisione dell’oggetto amato e all’annientamento, non certo al lieto fine e neppure all’omicidio del rivale. Questo ordito di rimandi sociali, proiezioni inconsce e porcherie ben evidenti, si sviluppa ne L’angelo del male attraverso scene ben scandite che, dopo lo sfavillio iniziale dal treno, trovano requie in una messa in scena per lo più naturalistica che si immerge languida e ammorbante in luci setose e morbide, specie nei “duetti” più intimi dove occhi illuminati emergono dall’oscurità dei volti e degli ambienti, e in alcune sequenze che da sole valgono il film, come il pre-finale che inizia con una serata di ballo e termina con l’omicidio di Séverine. Una sequenza dall’orchestrazione registica ammirevole, in cui lo spettatore resta intrappolato tra una danza, lo sguardo voyeurista del protagonista, un dialogo romantico, il tentativo del sodale Pecqueux di evitare il peggio, persino una finta traccia suspense sul ritorno a casa del marito di Séverine, per poi tornare nella sala da ballo a sentire una canzone che fa eco alla morte della donna.
Film in perpetuo movimento, talvolta di corsa come un treno, talvolta sospeso tra una stazione mentale e l’altra, L’angelo del male trasuda malessere, sensualità e morte, esprimendo le ambiguità del desiderio, facendo virare al noir vero e proprio il romanzo di Zola (che nel 1954 sarà portato, ancor più liberamente, sullo schermo da Fritz Lang), amalgamando il tema dell’ingiustizia sociale con la traiettoria tragica del suo protagonista, a detta del regista simile a Edipo Re. Un simbolo dell’aporetico destino umano ma vestito da ferroviere, la cui unica risonanza confortante è la locomotiva (una macchina che oltre tutto se si rompe si può riparare). Almeno fino alla fine quando, invece, neppure il nervoso sbraitare del treno saprà placare il senso di colpa di aver ceduto a se stesso, compiendo la parabola del destino e dei suoi avi. Da cui aveva ereditato un’incrinatura per cui non riusciva a darsi una risposta.
Info
L’angelo del male, il trailer.
- Genere: drammatico, noir
- Titolo originale: La Bête humaine
- Paese/Anno: Francia | 1938
- Regia: Jean Renoir
- Sceneggiatura: Denise Leblond-Zola, Jean Renoir
- Fotografia: Curt Courant
- Montaggio: Marguerite Renoir, Suzanne de Troeye
- Interpreti: André Tavernier, Blanchette Brunoy, Charlotte Clasis, Claire Gérard, Colette Régis, Fernand Ledoux, Gérard Landry, Jacques B. Brunius, Jacques Beauvais, Jacques Becker, Jacques Berlioz, Jacques Roussel, Jean Gabin, Jean Renoir, Jenny Hélia, Julien Carette, Marcel Pérès, Marguerite de Morlaye, Simone Simon, Tony Corteggiani
- Colonna sonora: Joseph Kosma
- Produzione: Paris Film Production
- Durata: 100'