Ten Years Japan

Dopo le due raccolte di giovani sguardi distopici e fortemente politici su Hong Kong e sulla Thailandia, la serie panasiatica Ten Years fa tappa in Giappone per immaginarne e metterne in scena le derive sociali e antropologiche nei prossimi dieci anni. Questa volta però, fra gli spunti di denuncia sociale, la fantascienza e il melò, sembra mancare una reale urgenza alla base. Presentato al Far East 2019.

Il passato è afflosciato, il presente è un mercato. E il futuro?

Cinque giovani registi presentano altrettante versioni del Giappone nel prossimo futuro. Un futuro che prevede l’eutanasia per gli anziani, bambini educati da software, eredità e ricordi affidati al digitale, una nuova umanità che vive nel sottosuolo, creazioni artistiche che servono ad arruolare l’esercito. [sinossi]

Non poteva trovare una collocazione più filologica del Far East il lavoro collettivo Ten Years Japan, per cui la prima italiana a Udine è una sorta di ritorno al ventre materno, all’origine, alla genesi, al primissimo embrione. A quello stesso schermo “galeotto” che tre anni fa, all’interno della sua sempre ricca programmazione, aveva ospitato il dolente e politicissimo Ten Years hongkonghese, distopia in cinque atti diversissimi per genere, sguardo e fattura che, a breve distanza dalla pacifica Rivoluzione degli Ombrelli Gialli e nell’inesorabile e sempre più annichilente crescere delle limitazioni imposte da Pechino, immaginavano il 2025 come tappa centrale di quel lento e doloroso processo politico e culturale di annessione dell’ex colonia britannica alla Cina che terminerà nel 2047. Fra il pubblico di quella proiezione udinese era presente la produttrice giapponese Miyuki Takamatsu, e proprio nei corridoi del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, tradizionale sede della kermesse friulana, avvenne il suo fatidico incontro con i distributori internazionali del film di Hong Kong da cui nacque l’idea di estendere il progetto Ten Years agli altri Paesi dell’Asia, in una serie di “concept album” (per ora tre: Giappone, Thailandia e Taiwan) probabilmente destinata a crescere ancora espandendo la sua onda di immaginazione e inquietudine, ma anche di profonda libertà, di Paese in Paese. Con queste premesse produttive, dopo i Ten Years Thailand già presentati lo scorso anno a Cannes con la «leggera» dittatura militare del Paese messa più o meno sotto silenzio nel resto del mondo e con la mano di Apichatpong Weerasethakul a dirigere l’ultimo e più denso episodio, non poteva quindi che essere proprio lo schermo del Far East Film Festival la sede naturale per le prime italiane di questa (per ora) nuova trilogia di polittici a più mani, fra i Ten Years Taiwan di un Paese la cui sovranità non è riconosciuta da gran parte delle nazioni e, appunto, i (ben più deboli) Ten Years di un Giappone dove le politiche sempre più destrorse, ipocrite e intransigenti di Shinzō Abe si fanno largo fra un disastro nucleare, uno scrigno di ricordi, una chiamata alle armi, un controllo delle morti e le possibili drammatiche implicazioni della tecnologia, tramite l’istruzione, in mano al Capitale. Ma a Ten Years Japan, ed è probabilmente proprio qui che sta la sua fragilità, la politica interessa solo relativamente. Sono piuttosto gli aspetti sociali e il loro possibile ripercuotersi sul quotidiano futuro i punti su cui il film, nel passaggio di testimone fra i suoi cinque episodi scritti e diretti da altrettanti giovani registi, si interroga. A questa versione giapponese, più ancora che alla già edulcorata versione taiwanese, manca probabilmente quell’urgenza viva e bruciante che innervava la “madre” hongkonghese e che analogamente vivifica il buon fratello thailandese, e forse proprio per questo manca un’idea forte alla base, che sappia realmente ragionare al di là della superficie di preoccupazione e di sano idealismo. Ma forse poco importa, in un progetto del genere, dell’effettiva riuscita o meno dei singoli episodi, e poco importa pure dell’effettiva riuscita o meno dei film, ondivaghi e altalenanti per loro stessa struttura. Quello che realmente conta, nei Ten Years, è la pluralità degli sguardi ed è lo spirito cinefilo e ribelle che li anima, nella ricerca di giovani autori a cui lasciare completa e totale indipendenza nella scelta delle forme e delle storie, liberi di sperimentare e far viaggiare il loro cinema con il solo patto di ambientarlo dieci anni dopo.

Tocca, in ordine, a Chie Hayakawa, Yusuke Kinoshita, Megumi Tsuno, Akiyo Fujimura e Kei Ishikawa, ognuno con il suo stile, con il suo genere e con il suo immaginario, essere chiamati a ragionare sul futuro, sulle conseguenze, sui cambiamenti e sulle possibili implicazioni del Giappone. Registi giovani e in gran parte esordienti, fra cui tre donne, affidati a un (probabilmente troppo) invisibile Hirokazu Kore-eda coordinatore del progetto e pronti a muoversi nelle direzioni cinematografiche più disparate, dalla denuncia sociale alle diverse forme della fantascienza, e poi dal melodramma al ritorno ineluttabile della memoria passando per la commedia agrodolce. Lasciando loro, come è probabilmente giusto che sia, anche la possibilità di sbagliare, di non centrare appieno il loro punto, ma di farlo con la propria testa. C’è il Plan 75 con cui il governo ribalta ogni rispetto per favorire il consumismo, convincendo gli anziani a scegliere volontariamente l’eutanasia senza malattie, ma semplicemente per risparmio sociale, fra ipocriti sorrisi e una disumanizzazione che entra progressiva anche dentro le case dei funzionari. C’è – ed è per distacco, pur nella sua ingenuità, il miglior episodio del film – la Mischievous Alliance dei bambini che non rinunciano a essere monelli nemmeno quando, tondo come un novello Hal 9000, un software li controlla in ogni fase dell’educazione perché non possano fallire alcun obiettivo prefissato dalla società, riuscendo con un solo atto di ribellione (la liberazione di un cavallo malato destinato al macello) a far saltare l’intero sistema di controllo delle coscienze per lanciarsi in una corsa di libertà nel bosco (non più) proibito. C’è poi l’eredità digitale lasciata da una madre a una figlia in Data, con il passato che ritorna nelle sue zone d’ombra con cui fare i conti e il futuro verso il quale bisogna imparare a camminare con la fiducia reciproca e i sentimenti; c’è la The air we can’t see che ancora esiste, probabilmente contaminata, al di fuori del rifugio antiatomico unica casa di una bambina che non ha mai visto, ma ascolta registrati in un walkman, i suoni e i colori vividi del «mondo di sopra», e infine c’è la chiamata alle armi di For our beautiful country, che ritorna come a chiudere un cerchio al tema della senilità con un giovane pubblicitario chiamato a comunicare a un’anziana figlia di eroe militare, ossessionata dai videogiochi bellici in VR, come la sua grafica di ricami sia stata sostituita dal Ministero. Cinque diverse storie per cinque diversi sguardi, cinque diverse preoccupazioni, cinque diverse paure, in cui la protezione di una madre può coincidere con una forzata prigionia, in cui la società può decidere di controllare e punire persino i pensieri, in cui l’inarrestabile avanzare della tecnologia diventa annichilimento dell’uomo, e in cui a volte per guardare al futuro è necessario ragionare sul passato, sulla memoria, sulle emozioni perdute fra vecchie foto e canzoni. Cinque storie fatte di più e meno buone intuizioni come di sonore cadute (anche nel kitsch, si vedano le grossolane animazioni di The air we can’t see), ma anche di una ben precisa autonomia creativa e sociale, di un ben preciso fuoco di ribellione, di un ben preciso magma culturale in cui immergersi. Con la cerimoniosità tipica del Giappone, assolutamente necessaria nella sua faccia di bronzo perché gli anziani accettino con gioia e anzi chiedano di essere soppressi, con la altrettanto archetipica centralità del cibo nei rapporti personali, e con la proiezione di tutto questo in un futuro incerto, atterrente, doloroso. Un futuro di morte, di controllo delle coscienze, di guerra, di inumanità, di capitalismo selvaggio. O forse nonostante tutto un futuro brillante, perché in qualche modo la vita prosegue, nasce, cresce, e con lei proseguono i sentimenti, l’umanità, la sete di libertà e la forza per combattere ancora. Anche con le immagini, ovviamente. E anche quando avrebbero potuto, e dovuto, dire molto di più.

Info
Il trailer di Ten Years Japan.
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