Ghost – Fantasma

Ghost – Fantasma

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Esorbitante successo planetario all’epoca della sua uscita nelle sale, Ghost – Fantasma di Jerry Zucker riscopre un romanticismo semplice ed epidermico in funzione di uno spettacolo puramente popolare, tra meriti di sceneggiatura e altrettante debolezze. La salvezza del film è Oda Mae Brown, personaggio irresistibile incarnato da una splendida Whoopi Goldberg, che oscura letteralmente i palpiti d’amore ultraterreno tra Patrick Swayze e Demi Moore.

Pare Bergman

Banchiere e scultrice, i giovani e belli Sam e Molly vanno a convivere in un enorme appartamento a New York per coronare il loro sogno d’amore. Uscendo una sera da teatro, Molly propone a Sam di sposarsi, ma i due sono aggrediti da uno sconosciuto che dopo una colluttazione spara a Sam lasciandolo morto sulla strada tra le braccia disperate della sua donna. Sam rimane in realtà al fianco di Molly sotto forma di fantasma, afflitto dall’impossibilità di comunicare con lei. Per cercare una via di comunicazione con Molly, Sam si presenta a una sensitiva truffatrice, Oda Mae Brown, che fino a quel momento ha ingannato i suoi clienti millantando inesistenti poteri sovrannaturali. Dall’incontro con il fantasma di Sam, Oda Mae scopre invece con grande spavento di possedere davvero tali poteri, e sulle prime si rifiuta di aiutare il trapassato innamorato. Intanto però Sam scopre che la sua uccisione non è stata così casuale come sembra, e finalmente ottiene l’aiuto di Oda Mae per dipanare il mistero della sua morte e per proteggere Molly… [sinossi]

Ghost – Fantasma (Jerry Zucker, 1990) è stato un enorme successo di pubblico ed è un film conosciutissimo. Oramai si è tramutato in un classico moderno, anche grazie ai ripetuti passaggi televisivi e ad almeno una sequenza entrata nell’immaginario collettivo, adorata o parodiata più volte. Il tornio, il vaso cesellato dalle mani di Demi Moore, Patrick Swayze che le si siede dietro, i baci, gli abbracci, le carezze, la creta fresca e le note melense di Unchained Melody a commento. Dopo le prime risatine sarcastiche dei più cinici, il film intraprese un’ascesa di popolarità piuttosto imprevedibile, riscuotendo addirittura l’apprezzamento dell’Academy che gli riconobbe cinque nomination all’Oscar (tra le quali quella per il miglior film) e ben due premi, all’attrice non protagonista Whoopi Goldberg e alla sceneggiatura originale di Bruce Joel Rubin. Troppa grazia? Può darsi, anzi sì, ma con qualche distinguo.

Le ragioni del successo planetario sono molteplici, ma la principale riguarda probabilmente una riscoperta conclamata del più spudorato e ruffiano romanticismo, qui riletto al crocevia fra tradizione e innovazione. Restando nei confini del cinema di largo consumo, i fantasmi buoni che si trovano provvisoriamente incastrati in un mondo intermedio tra aldiqua e aldilà sono praticamente un archetipo narrativo, da Joe il pilota (Victor Fleming, 1943) al suo remake Always – Per sempre (Steven Spielberg, 1989), a Passaggio per il paradiso (Cary Medoway, 1985), a Il fantasma innamorato (Anthony Minghella, 1990), fino a derivazioni nostrane verso la parodia come Asso (Castellano e Pipolo, 1981) con Adriano Celentano come protagonista. In realtà gli incroci tra aldiqua e aldilà presentano anche variazioni interessanti e narrativamente più complesse come Nei panni di una bionda (Blake Edwards, 1991) e Uno strano caso (Emile Ardolino, 1989), piegati più verso il tema della reincarnazione. Tuttavia è evidente che Ghost, mantenendosi nel tòpos del fantasma romantico e protettivo, disegna percorsi narrativi ben dissodati. Rivisto oggi (ma anche allora) non ci pare che Ghost sia propriamente un capolavoro, ma è capace di sfruttare bene una serie di valori (o falsi valori) in termini commerciali. La scelta degli attori protagonisti, innanzitutto; il compianto Patrick Swayze veniva dal grande successo di Dirty Dancing – Balli proibiti (Emile Ardolino, 1987), mentre Demi Moore costruiva a poco a poco una propria etichetta di star mondiale alla quale concorse in modo decisivo proprio il film di Zucker. Fu una scelta ovviamente più di immagine che di merito. Entrambi belli, capaci di costituirsi in coppia zuccherosa e appassionante, inseriti in una confezione patinata sempre a un passo dal kitsch – invero debordante sul finale. Entrambi, magari, attori non eccelsi, o quantomeno Swayze collezionerà alcune delle sue prove più interessanti dopo Ghost, a cominciare da Point Break (Kathryn Bigelow, 1991), dopo aver mosso i suoi primi passi importanti nel cinema nientemenoché con Francis Ford Coppola. È innegabile che Zucker punti molto sulla fotogenia dei suoi due protagonisti, ed è altrettanto vero che il film si dipana piattamente, come un oggetto vacuo e abbastanza irritante, fino all’entrata in scena di Whoopi Goldberg. Rivedendolo oggi, anzi, si attende con trepidazione il suo arrivo nel racconto, sorbendosi stancamente tutta la prima parte riservata solo ai due colombi travolti dalla tragedia di un sogno d’amore spezzato.

La confezione, insomma, sembra mirata a due pubblici popolari considerati come simultanei destinatari, e forse sta proprio qui un’ulteriore e decisiva ragione di un successo così generalizzato; memorie lontane di visioni collettive in vhs ci ricordano amiche accoccolate sul pavimento a piangere per Patrick e Demi, mentre i ragazzi le sfottevano e si godevano solo le parti con Whoopi, e magari anche i risvolti d’azione e noir/thriller. In sostanza, Zucker e Rubin dettero vita a un prodotto scaltrissimo, in cui vige una confluenza pressoché totale di generi popolari assemblati senza la minima sconnessione o squilibrio. Ghost mette insieme infatti un’incredibile quantità di tendenze diverse; in una più generale cornice di racconto fantastico, c’è ampio spazio per la commedia, l’azione, il noir, il thriller, un paio di aperture debolmente horror, qualche sprazzo di mafia-movie, accenti sparsi New Age al passo con i tempi e dramma romantico. Si tratta di uno spettacolo scopertamente e volutamente epidermico, che non contiene alcun doppio fondo e men che meno serie riflessioni su ciò che ci aspetta al termine dei nostri giorni. Spettacolo popolare e anche infantile, capace in tal senso di profilarsi non solo come intrattenimento trasversale per donne e uomini, ma anche propriamente intergenerazionale – se il principale target del film sembra un pubblico adolescente, d’altro canto la spartizione netta tra Buoni e Cattivi e i relativi esiti nell’aldilà sono messi in scena tramite una semplificazione adatta pure a un pubblico di bambini (da un lato le luci abbaglianti dal cielo, dall’altro le ombre urlanti che si sollevano da terra). Anzi, il movimento è probabilmente inverso; come molto cinema mainstream americano che gioca con la fiaba, anche Ghost mira a coinvolgere qualsiasi possibile pubblico tramite una precisa infantilizzazione degli spettatori adulti, ricondotti a una dimensione di meraviglia perduta nel passaggio dalle illusorie semplificazioni dell’infanzia alla complessità razionale della maturità.

Se dunque l’amalgama è furbissimo e funzionale, molto è merito della sceneggiatura di Rubin, e in tal senso l’Oscar sembra pure ben assegnato, vista la capacità di raggiungere apprezzabili punti di fusione tra ispirazioni diverse, benché nel generale regime di semplificazione appaia fin troppo facile lo stratagemma bancario tramite il quale Swayze e Goldberg mettono i malintenzionati in scacco. Nell’ordine di una solida sceneggiatura popolare e commerciale Ghost può essere dunque definito un film mediamente ben scritto, nulla da eccepire. Qualche dubbio in più viene semmai dalla messa in scena, leccatissima, a tratti pubblicitaria, che al contempo sembra scontare un budget relativamente non elevatissimo – all’epoca, il rapporto tra budget e incassi mondiali fu decisamente vantaggioso. Sia pure rapportati ai mezzi dell’epoca, gli effetti speciali sembrano più arretrati dei loro anni, e più volte il cattivo gusto visivo tracima. Le musiche, pur affidate alle mani esperte e sicure di Maurice Jarre, concorrono a loro volta a una dimensione di enfasi romantica facile facile. In sintesi, a distanza di trent’anni dalla sua apparizione sugli schermi continuiamo ad apprezzare perlopiù le sezioni di commedia, davvero brillanti e ben strutturate, e se a tutt’oggi rivediamo Ghost con un certo piacere è solo grazie al personaggio di Oda Mae Brown e alla prova strepitosa di Whoopi Goldberg. È esilarante, c’è poco da fare, a tratti irresistibile. Ancora merito della sceneggiatura è infatti aver identificato come tramite fra i due innamorati separati dalla morte una figura di sensitiva truffatrice che scopre invece, incontrando il fantasma Swayze, di aver davvero poteri medianici. In tal senso la figura di Oda Mae è un salvifico antidoto interno al racconto, una sorta di autoparodia critica interna al testo che spinge a non prendere tutto il film troppo sul serio. Seguiamo con franche risate lo spavento di Oda Mae quando scopre che riesce realmente a parlare con i defunti, sono ancora fonte di grande divertimento tutti i suoi tentativi di sottrarsi alle richieste del fantasma. È infine un piccolo grande capolavoro tutta la sequenza della visita in banca, dove si gioca con grande scaltrezza sui doppi piani del racconto e sulle relative anfibologie – la sensitiva che parla con il fantasma, mentre altri credono che le sue parole siano rivolte a loro. Un po’ inaspettatamente l’alchimia tra Swayze e la Goldberg, attori così diversi e distanti, è invece prodigiosa, e i loro scambi sono la cosa migliore del film. In uno spettacolo tutto di superficie e concepito per le grandi masse vi è anche, grazie alla figura di Oda Mae, almeno una sequenza un minimo coraggiosa, quando cioè la sensitiva presta il proprio corpo al fantasma per allacciarsi di nuovo, almeno una volta, alla sua amata perduta. Vero è che poi vediamo effettivamente Swayze e la Moore avvinghiati nell’ultima possibilità di un contatto fisico, scavalcando la “realtà” del corpo della Goldberg secondo una scelta più rassicurante per il grande pubblico. Ma d’altra parte, per una figura tutta parodica come quella di Oda Mae, sarebbe stato forse ridicolo vederla coinvolta in un romantico abbraccio con Demi Moore. Insomma, forse non è il caso di chiedere troppo realismo a una fiaba.

A fronte di tali pregi e altrettante debolezze, Ghost solleva qualche altra riflessione in merito all’evoluzione dello spettacolo mainstream americano. Fa un certo effetto constatare, alla luce delle attuali pratiche hollywoodiane, che a inizio anni Novanta un film così concepito si delineasse come blockbuster. La differenza più macroscopica rispetto ai nostri anni riguarda i ritmi del racconto. Ghost presenta certo ampie sezioni di concitazione audiovisiva, legate perlopiù al versante noir/thriller della sua multiforme natura, ma in generale il passo è molto allentato, e se lo rapportiamo all’idea attuale di blockbuster appare talvolta addirittura contemplativo. Rispetto all’odierna sovrabbondanza di cinecomic o di adrenalinici action-movie, che si delineano per i due macrogeneri più frequentati da molti anni in qua nel mainstream americano in funzione di calcolati sfracelli al botteghino, Ghost pare Bergman, insomma – ci sia concessa l’iperbole divertita e ovviamente scherzosa. Nella sua parte iniziale di introduzione al racconto Zucker e Rubin mettono in bocca battute assolutamente generiche ai suoi due protagonisti per conferire loro un minimo di spessore, rapidamente dimenticate una volta che la narrazione si avvia verso i territori del fantastico dopo la morte di Sam. Sono figure senza alcuno spessore specifico, pure funzioni narrative di un romance fatto di cliché privi di qualsiasi individualizzazione. Eppure quelle battute testimoniano una sorta di “scrupolo psicologistico”, il bisogno di tentare almeno una corroborazione tridimensionale, tenue quanto si vuole, delle figure messe in gioco. In tal senso vi è forse da riflettere sulla discreta sparizione, nel cinema americano di oggi, di una forma mediana di spettacolo popolare come questa, a mezza via tra un’accurata costruzione narrativa orizzontale e le meraviglie degli effetti speciali. Ghost si preoccupa quantomeno di costruire un racconto robusto facendosi forte di una sceneggiatura ben studiata, mentre nei blockbuster attuali la sceneggiatura sembra spesso l’ultimo dei problemi o è affrontata secondo standard precostituiti di intensa omologazione seriale. Per un pubblico adolescente di oggi, maschi o femmine che siano, è probabile che Ghost risulti di una noia mortale – e per certi versi, con tutte le sue melensaggini, come dar loro torto. Ma secondo tale ragionamento non si tratta molto del cosa, bensì del come. Non c’è più tempo per giochetti tra «Ti amo» e «Idem». Adesso, dopo dieci minuti senza concitazione, rumore, musica incessante a commento, l’attenzione cala inesorabilmente. Forse è un po’ sparita la premessa culturale di un romanticismo immediato, facile e a pronta presa, che possa coinvolgere epidermicamente ampie fette di pubblico – era già fuori tempo massimo anche alle soglie dei Novanta, e nel suo gusto evidentemente rétro il film di Zucker trova forse una delle sue chiavi vincenti sull’onda di una condivisa nostalgia. Ma è cambiata sensibilmente anche l’idea di montaggio (qui a opera del prestigioso Walter Murch), e in tutto questo ha ricoperto probabilmente un ruolo decisivo il passaggio dalla pellicola al digitale. A fronte di tutte le sue ruffianerie, Ghost conserva comunque, rivisto oggi, l’evidente fascino della grana della pellicola. Le immagini digitali degli attuali blockbuster portano con sé invece una sorta di intrinseca omologazione visiva, più brillante, iperreale, più vera del vero. Per cui, anche un film banale ed evanescente come questo si delinea oggi come testimone di una generalizzata e rapidissima obsolescenza estetico-tecnologica, con precise ricadute nella costruzione del racconto e nella sua fruizione.

Info
Il trailer di Ghost – Fantasma.

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