Il rullo compressore e il violino

Il rullo compressore e il violino

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Tra le prime realizzazioni cinematografiche di Andrej Tarkovskij, Il rullo compressore e il violino è un mediometraggio apparentemente allineato alle istanze dell’arte di regime, ma contiene già evidenti tracce di uno sguardo che imbocca con forza la strada del lirismo intimo, del soggettivo e del simbolico. Nessun entusiasmo sovietico, bensì una tenera malinconia del tutto interessata all’individuo.

Lo spazio dell’io

Bambino solitario e deriso dai ragazzi del quartiere, Saša esce di casa per andare a un esame di violino. L’esame va male, ma la giornata di Saša è rischiarata dall’incontro con Sergej, un operaio intento a lavori in strada nel quartiere. Sergej manovra un rullo compressore ed è proprio quello a catturare la curiosità del bambino. I due fanno presto amicizia e la sera decidono di andare insieme al cinema a vedere «Čapaev», ma la madre di Saša non è d’accordo… [sinossi]

Se più o meno intenzionalmente Andrej Tarkovskij prende fin dall’inizio le distanze dai dettami del Realismo Socialista, dominante in tutte le forme d’arte sovietica allineata negli anni della sua attività, ciò avviene innanzitutto attraverso l’emersione del soggetto nell’espressione creativa. Risulta ben evidente fin da Il rullo compressore e il violino (1961), mediometraggio per ragazzi sceneggiato insieme ad Andrej Končalovskij che Tarkovskij realizzò sotto l’egida della Mosfil’m come saggio di regia per diplomarsi a Mosca al VGIK (l’Università statale pan-russa di cinematografia S. A. Gerasimov). Il soggetto si sente, si avverte. Lo sguardo soggettivo, la dimensione intima, stanno sia nella forma sia nel contenuto del racconto. Nessun distacco accademico, ma nemmeno una chiara e invadente effusione emotiva. Piuttosto, uno sguardo cinematografico che sente il soggetto e gli dà forma, che rifugge dalla convenzione di regime pur dando l’illusione di allinearsi a temi consueti per il cinema sovietico ufficiale. Nell’incontro tra il bambino Saša e il manovale Sergej è agevole infatti rintracciare motivi fortemente impastati con una consolidatissima e indiscutibile retorica nazionale: il fascino dell’operaio tutto d’un pezzo, il bambino ben educato, timido e impacciato che lo assume a modello, la fascinazione della città e le magnifiche sorti e progressive garantite dallo sviluppo tecnologico. Eppure, nell’accenno di un’amicizia interclassista in cui si confondono ruoli paterni, filiali e fraterni, si annidano anche tenui dubbi e ombre.

Il rullo compressore e il violino non mostra infatti un consueto entusiasmo per il sol dell’avvenire, bensì un mesto e tenero ripiegarsi su melanconie a rischio, in tempo di regime, di essere rapidamente liquidate come decadenti. Sotto varie forme emerge uno sguardo cinematografico fortemente personale e soggettivizzato. Da un lato Tarkovskij ricorre a distorsioni grottesche appena percepibili, perseguite attraverso l’uso dello spazio scenico e il gran lavoro sul colore, sempre restituito in tinte forti e al contempo opalescenti e chiaroscurate; dall’altro, si susseguono dettagli di gusto post-espressionista (una sorta di espressionismo a cromatismi intensi) su oggetti e brani di realtà spesso riverberati da superfici d’acqua in morbido movimento – l’acqua ritornerà spesso nel cinema di Tarkovskij. Gli oggetti si caricano di forza simbolica (vedasi la squillante mela rossoverde) e al contempo alludono a emozioni intime, a uno spazio in qualche modo rubato e ritagliato alle regole dell’arte ufficiale. Se dunque l’immagine cinematografica acquista vividi valori soggettivi, succede altrettanto nella frequente adozione dello sguardo del bambino Saša, che sembra filtrare tutto il reale a lui circostante attraverso il suo occhio colmo di stupori e malinconie. Vessato da altri ragazzi del quartiere, umiliato all’esame di violino, sostanzialmente solitario e isolato con la madre in un appartamento ben arredato, Saša rischiara i suoi occhi davanti alla curiosità per l’altro, incarnato dall’operaio Sergej, ma tuttavia il loro incontro può trovare una vera complicità duratura solo nella dimensione del sogno. Non c’è spazio per un affetto solido tra due figure distanti per generazione e soprattutto per condizione di vita. D’altra parte, il finale dai toni fantastici allude a quanto di più intimo e di meno collettivo possa esistere in natura: la dimensione del sogno, decisamente distante dalle attese del Realismo Socialista, specie se interpretato come spazio esclusivo, invalicabile e del tutto individuale.

Ancora: il maglio che spaventosamente si abbatte contro vecchi palazzi fa sbattere a Saša gli occhi per l’emozione, ma da esso non traspira una spavalda lode alla modernità. Il maglio devasta e annienta, collocandosi in un territorio ambiguo dove dietro l’entusiasmo per il progresso si cela la tenebrosa ombra del dubbio generata dall’onta della tradizione disintegrata – «Sono persuaso che nulla di serio possa nascere senza fondarsi sulla tradizione», avrà a dire lo stesso Tarkovskij. E subito viene alla mente il maglio discretamente simile di Prova d’orchestra (1979) – che Fellini avesse forse dimestichezza con il cinema di Tarkovskij, dal momento che pure Prova d’orchestra affronta il tema del rapporto tra arte e società/modernità? Oltretutto, frantumando spesso l’oggettività del racconto, Tarkovskij sembra attribuire arditamente il punto di vista della macchina da presa al maglio stesso in più di un’inquadratura in soggettiva, una sorta di antropomorfizzazione dell’inanimato che spinge ancor più lo sguardo cinematografico verso il fantastico e il visionario. E non a caso all’esame di violino Saša si esibisce in una prova che la sua insegnante si affretterà a definire fin troppo fantasiosa; l’arte di Saša è dunque troppo effusiva e lontana dal canone convenzionale, un arguto cenno da parte di Tarkovskij a un’autoriflessione intorno alle proprie medesime predilezioni creative e al ruolo dell’artista nella società. Del resto, Il rullo compressore e il violino costituisce esso stesso prova d’esame per il regista al termine della sua formazione istituzionale, ed è estremamente sagace che un’opera così personale e distante dall’arte ufficiale sia riuscita a tramutarsi in strumento per ottenere il diploma dell’ufficialità, proponendo una riflessione sottotraccia sul medesimo statuto dell’opera d’arte e alludendo anche al rapporto tra artista e potere.

In questa direzione, risultano a loro volta assolutamente funzionali le pagine di sospensione lirica di cui il film è punteggiato, laddove la poesia non è affidata alla celebrazione delle masse collettive, bensì alla costruzione di un frammento di comunione di spirito tra due soggetti del tutto individuali e distanti tra loro come Saša e Sergej. Il bambino suona il violino per l’operaio. Sergej non è minimamente interessato a giudicare la performance del suo nuovo amico; per Sergej l’emozione della musica passa attraverso un linguaggio che trascende la razionalità della parola. La musica come linguaggio dello spirito, l’unico capace di mettere due soggetti in comunicazione aggirando gli ostacoli della lingua, degli steccati sociali, delle diverse formazioni culturali. In tal modo Tarkovskij restituisce all’arte il suo ruolo di elevazione dell’io, che può e deve tradursi in strumento di relazione tra soggetti, ma tramite la dimensione dell’emozione complice e non necessariamente dell’impegno collettivo. Una sorta di recupero della dimensione romantica dell’arte, che riqualifichi il momento artistico ma preservandone il lirismo tutto individuale. C’è spazio anche per un’embrionale indagine autoriflessiva. Il rullo compressore e il violino si apre e si chiude infatti con due immagini allo specchio del piccolo Saša. All’esordio il bambino frantuma la propria percezione del reale attraverso una serie di riverberi iterativi di taglio fortemente espressionista. Sul finale, invece, Saša si guarda in uno specchio di casa che presto diventa liquido e fluido come l’acqua, una sorta di interrogazione su se stesso, un soggetto che precocemente scruta in sé, cercandosi, avviando una perlustrazione dell’io inevitabilmente fallimentare – le increspature dell’acqua. L’acqua è elemento fluido, imprendibile, ancor più esaltato dall’ambiguità dello specchio. Il cinema di Tarkovskij non si propone di evocare e narrare dunque solide certezze. È cinema del dubbio, anzi ancor meglio dell’interrogazione e dell’autoriflessione.

In un approccio generale caratterizzato da un sussurrato rifiuto del compiacimento richiesto dal regime, Il rullo compressore e il violino non mostra quindi alcuna indulgenza. In luogo del consueto entusiasmo troviamo anche un diffuso senso dell’assurdo, al quale Tarkovskij sceglie di dare forma tramite l’adozione di motivi iterativi – pensiamo in particolare al ragazzino che continua a palleggiare come un automa per più giorni e all’enfasi tributata ai suoni del metronomo. Nel contesto di Saša e Sergej non c’è nulla di particolarmente esaltante; il vuoto e la mestizia delle loro esistenze, appena rischiarate dalla novità del loro incontro, è ben sottolineato dal commento musicale di Vyacheslav Ovčinnikov, dagli accenti scopertamente modernisti. E in ambito sonoro non è soltanto la musica a incaricarsi di spingere il racconto verso l’astrazione; basti pensare all’insistenza dei passi dei personaggi, spesso incastonati enfaticamente in un’assenza totale di ulteriori suoni. Risulta altrettanto beffardo che l’incontro tra Saša e Sergej si infranga sull’illusione non mantenuta di andare insieme al cinema a vedere Ciapaiev (Georgij e Sergej Vasil’ev, 1934), film-icona del Realismo Socialista prediletto da Stalin, consueta celebrazione di un eroe rosso. Quel modello eroico, pare voglia dire Tarkovskij tra le righe, si è speso per un’idea di società che il mondo malinconico e crepuscolare di Saša e Sergej non sembra garantire in alcun modo. Secondo la stessa linea, quel modello d’arte non può incontrare la complicità di Tarkovskij.

Il rullo compressore e il violino è intimo e astratto, rasenta il grottesco e l’assurdo, e al contempo sposa un principale sentimento di malinconia infantile. Un gioiello, spesso liquidato ed equivocato come un dazio tributato dall’autore ai contenuti di regime. Si registra certo qualche debito tematico (la filippica di Sergej sulla pagnotta sprecata…), ma in linea generale Saša e Sergej lanciano sfide estetiche, trascendendo i temi, affidandosi alle infinite sfumature garantite dallo stile.

Info
La scheda di Il rullo compressore e il violino sul sito del Palazzo delle Esposizioni.

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