Un été comme ça

Un été comme ça

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Un été comme ça, nuovo lungometraggio di Denis Côté presentato in concorso alla 72. Berlinale, segue da vicino tre ragazze “ipersessuali” alla ricerca di loro stesse, e del significato del concetto di desiderio. Un’operazione concettuale, tutta costruita sulla vicinanza della macchina da presa al volto delle protagoniste, ma non priva di fascino.

Conosci te stessa

Tre donne ipersessuali stanno trascorrendo 26 giorni in una tranquilla casa in riva al lago. Sono la seriosa Léonie, l’impulsiva Eugénie e la garrula Gaëlle, che preferisce farsi chiamare Geisha. Tutte e tre si trovano nel ritiro fuori città volontariamente. Sono seguite da un assistente sociale e, più a distanza, da un terapeuta. Il motto dell’impresa è il seguente: “l’ipersessualità non è una malattia”. Lo scopo di questo esperimento non è quello di guarire le tre ragazze, ma piuttosto di consentire una franca esplorazione di diverse esperienze, e forme del desiderio. [sinossi]
Been down so long, getting up didn’t cross my mind
But I knew there was a better way of life, and I was just trying to find
You don’t know what you’ll do until you’re put under pressure
Bobby Womack, Across 110th Street

Tra i registi della sua generazione più iperattivi dell’occidente (15 lungometraggi diretti negli ultimi 17 anni), Denis Côté ha un rapporto molto stretto con la Berlinale: Un été comme ça – That Kind of Summer è il titolo in inglese scelto per la vendita internazionale – è infatti il settimo film del cineasta canadese a trovare ospitalità nella capitale tedesca, e il quarto a prendere parte alla corsa per l’Orso d’Oro, dopo Vic + Flo ont vu un ours, Boris sans Béatrice, e Répertoire des villes disparues. In qualche misura Un été comme ça sembra parlare direttamente alle opere succitate: torna infatti il tema della reclusione, per lo più volontaria, della sessualità come forma esteriore e catartica per cercare di superare la propria distanza dal resto del mondo, dell’affetto come argomento “muto”, per il quale è difficile trovare le parole. Quasi stia disegnando una mappatura delle difficoltà relazionali, e degli scompensi emotivi, suggerendo allo stesso tempo la non esistenza della “malattia”, Côté elabora in questa occasione una riflessione sull’accettazione e la comprensione di sé stessi, dei propri turbamenti, e della propria sessualità. La terapia cui si sottopongono le tre protagoniste di Un été comme ça non è necessaria in quanto le ragazze siano malate, ma solo ed esclusivamente per permettere loro di connettersi con la propria intimità, comprenderla, accettarla, viverla senza titubanze. In un ribaltamento ideale del motto apollineo γνῶθι σαυτόν, Côté non vuole ricordare ai personaggi che ha messo in scena la loro limitatezza, o finitezza, ma al contrario ribadirne l’assoluta libertà, la possibilità di non accettare la prassi in nessun momento, anche lanciandosi vestiti di tutto punto nell’acqua del lago, e scomparendo al di sotto della superficie senza lasciare increspature.

Per raggiungere il suo obiettivo il quarantanovenne regista organizza il film come fosse una seduta terapeutica tanto per le attrici quanto per gli spettatori, che si trovano di fatto di fronte a un’opera logorroica, in cui l’ipersessualità passa quasi esclusivamente attraverso la forma dialettica – o al massimo in qualche nudo sul letto, al sicuro chiuse nella propria stanza –, e diventa argomento di discussione su altro, sull’intimità quasi impossibile all’apparenza di queste tre giovani donne. Tre donne che rappresentano agli occhi di Côté le tre possibili “derive” del femminile (ci sarebbe una quarta, vale a dire la terapeuta che le segue quasi esclusivamente a distanza, ma la scrittura del personaggio è quella che convince di meno, e l’allusione saffica nel prefinale appare forzata, e soprattutto semplicistica). Léonie è seria, riflessiva, vive la propria situazione con un senso di colpa; Eugénie è un fascio di nervi, esplosiva, impulsiva, quasi irrefrenabile nelle reazioni; Gaëlle infine è civettuola, seduttiva, e non a caso ama farsi chiamare Geisha, con ovvio riferimento alle intrattenitrici giapponesi con grande facilità scambiate in occidente per prostitute d’alto bordo, quelle cortigiane che in realtà dovrebbero essere definite oiran. Per costringere lo spettatore a entrare ancora maggiormente in contatto con questi tre personaggi – ottime le interpretazioni di Larissa Corriveau, Laure Giappiconi, e Aude Mathieu, anche se l’intero cast merita un plauso – Côté ricorre per gran parte del film a primi piani stretti sui volti, lavorando di montaggio per il campo controcampo e di fatto schiacciando ancora di più la visione nel versante dialettico, o per meglio dire dialogico.

Il risultato è ossessivo, ma anche sfiancante, sfinente e non sempre sembra riuscire a cogliere in pieno il centro del discorso, riducendosi in parte a un esercizio di stile, un’operazione concettuale che a volte smarrisce la propria emotività, e altre volte ne sembra perfino troppo succube. Quel che ne viene fuori è un film squilibrato – lui sì, non le psicologie delle protagoniste –, non privo di eccessive ridondanze e stancante ma nonostante ciò, o forse proprio per questo, altrettanto in grado di affascinare lo spettatore, di coinvolgerlo in un gioco che è trauma, ma anche risoluzione del trauma, e che crede fermamente nell’immagine come unica reale terapia possibile, perché incarnazione del desiderio nascosto, e che ha bisogno di un medium – la macchina da presa – per emergere oltre la superficie.

Info
Un été comme ça sul sito della Berlinale.

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