Ma l’Italia è degna di celebrare Pasolini?
Domani, 5 marzo, saranno trascorsi cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, nel quartiere Santo Stefano a Bologna. Di fronte a un’opera complessa e stratificata come quella del regista, poeta, scrittore e intellettuale italiano si ha il timore che una nazione abituata oramai a vivere nell’assertività non sappia porsi con spirito dialettico, ed esercitando il dubbio. La domanda quindi è se l’Italia del 2022 abbia davvero il diritto di festeggiare Pasolini. Nel tentativo di trovare una risposta, e di fungere da tassello di un ideale mosaico di riscoperta e rilettura della sua opera, Quinlan gli dedica uno speciale che si svilupperà da qui alla fine dell’anno.
Nella prefazione a Le belle bandiere nell’edizione che l’Unità ed Editori Riuniti pubblicano nella tarda estate del 1991, riproponendo l’edizione del giugno 1977 a cura di Gian Carlo Ferretti, Tullio De Mauro scrive: «In molti possiamo di continuo constatare quanto profondamente ha attecchito tra noi la presenza di Pasolini. Dopo la sua morte (2 novembre 1975), col passare degli anni essa non solo non s’è attenuata, ma si è andata facendo più forte. Saggisti e studiosi ne sono partecipi tanto quanto le generazioni più giovani e un pubblico largo di vario ceto e tendenza. In più, sono certamente parecchi quelli che possono testimoniare quanto questa presenza e questo interesse spesso appassionato non siano tanto fenomeno solo italiano: a Madrid, New York, Parigi, Monaco, sale riservate a pubblici di élites si colmano e traboccano non solo se si proiettano film di Pasolini, ma anche se si discute, e magari in chiave assai tecnica, in modo complesso, della sua opera, della sua persona, della sua vita. Si farebbe male a considerare ciò come superficiale fenomeno di massa: non solo per l’estensione internazionale crescente, per la durata e il rafforzarsi nel tempo, ma anche per la qualità. Solo un piccolo esempio: chi da quindici anni a questa parte ha avuto il privilegio di seguire una iniziativa modesta, ma concretamente significativa della Fondazione Pasolini di Roma, il premio annuale alla miglior tesi di laurea sull’opera di Pasolini, ha potuto constatare non solo il moltiplicarsi, ma l’affinarsi e approfondirsi delle analisi di giovani studiose e studiosi sia in Italia sia, con un numero crescente di tesi di terzo ciclo, e dottorati di specializzazione, fuori di Italia. Insomma: i conti con Pasolini restano aperti».
Sono trascorsi oltre trent’anni da questa prefazione, e l’Italia si prepara a festeggiare il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 5 marzo del 1922 in via Borgonuovo, nel cuore del quartiere Santo Stefano a Bologna. Risuona nella testa l’incipit di De Mauro: In molti possiamo di continuo constatare quanto profondamente ha attecchito tra noi la presenza di Pasolini. Non c’è dubbio che in un’ottica accademica, che è quella cui fa riferimento lo stesso De Mauro parlando delle tesi di laurea e dei dottorati di specializzazione, il passaggio succitato risulti aderente al “vero”. Ma l’impressione è che in quell’incipit si allarghi il discorso all’intera collettività, suggerendo come l’esperienza umana, intellettuale e artistica di Pasolini si sia trasformata dopo l’omicidio del 2 novembre 1975 in un momento di riflessione pubblica e sociale, quasi nazionale. Sarebbe auspicabile che le cose stessero così, ma il condizionale è d’obbligo. Per rendere possibile e concreto l’orizzonte suggerito da De Mauro dovremmo infatti vivere in una società dominata dal dubbio, pervasa dall’incertezza, resa caotica non dalla sovrapposizione di asserzioni, ma dall’infinito reiterarsi di domande. Le domande che Pasolini cercava di porsi e porre, anche quando ammaliato dall’ego rispondeva su Vie nuove con profonda certezza a coloro che lo interrogavano. Le domande che nell’immagine/immaginario del suo cinema si rintracciano in ogni inquadratura, in ogni angolazione della cinepresa, in ogni campo-controcampo, in ogni piano-sequenza. Le domande che risuonavano negli elzeviri, nelle interviste, negli scambi dialettici televisivi, nelle prese di posizione perfino apodittiche (la sua brutale bocciatura di Cassola colpevole di aver ucciso il realismo con La ragazza di Bube, pubblicata da Paese Sera in forma d’epigramma). Le domande che erano incessantemente la messa in dubbio di sé, del proprio portato ideologico, della struttura stessa del suo pensiero. Se vivessimo nella società “vista” da De Mauro non saremmo homo videns, come suggerì decenni or sono Sartori, ma homo dubitans. In verità l’impressione forte è che il pensiero di Pasolini abbia attraversato i decenni posto sotto una teca di vetro, sulla carta per “proteggerlo” dai venti ostili, ma in realtà perché si agisse esattamente all’opposto. Un destino non così dissimile da un altro moralizzatore della società dei consumi, quel Guy Debord che ha anticipato nella sua lettura lo sfacelo del capitalismo senza che si facesse nulla per propagarne il verbo. Pasolini e Debord, cassandre marxiane in perenne conflitto con il proprio tempo, con i propri simili, con la classe intellettuale e con quella subalterna, costretti loro malgrado a errare tra le macerie di un mondo opulento e destinato all’autodistruzione. Il primo ucciso sulla spiaggia di Ostia, in una dinamica di cui non v’è certezza, il secondo suicidatosi con un colpo di pistola al cuore nella sua casa a Champot-Bas, nell’Alta Loira. Due relitti del Novecento, fantasmi destinati a mettere in crisi ogni sistema contemporaneo.
Eppure per Pasolini, nel centenario della nascita, si aprono le porte dell’istituzione. Lo Stato si fa garante della sua memoria, il mondo del cinema collettivamente si chiude nel pianto rituale del ricordo, quella commemorazione che è l’antitesi della beatificazione, e dunque dell’annullamento dell’umano, e delle sue inevitabili miserie. Il 2022 sarà consacrato, per quel che concerne il mondo del cinema, al ricordo di Pasolini. In suo onore verranno addirittura aperti bandi pubblici, come ad esempio quello allestito dal Comune di Roma. Nulla da eccepire, ovvio, perché è doveroso il ricordo di Pier Paolo Pasolini. È doveroso lo studio di Pier Paolo Pasolini. È doverosa l’analisi di ciò che ha prodotto nel corso della sua vita – e con la sua vita – Pier Paolo Pasolini. Eppure una domanda si fa largo in questa comune sbornia “pasoliniana” (sul significato e l’utilizzo di tale aggettivo si tornerà tra poco): l’Italia ha diritto di festeggiare Pasolini? Ne La Guinea, poesia contenuta in Poesia in forma di rosa, che Garzanti dà alle stampe nel 1964, si legge:
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L’intelligenza non avrà mai peso, mai,
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da una dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –
alzare la mia sola, puerile voce –
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, con la più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
—
Occorre forse ribadire un passaggio per sottolinearne il peso: Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da una dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione, di questo popolo oramai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato. La soave saggezza è la stessa che permette all’Italia di oggi di “omaggiare” la memoria di Pier Paolo Pasolini: una soave saggezza che leviga ogni spigolo, riduce ogni contrasto, allinea ogni sregolatezza. La società italiana contemporanea, lo si può constatare anche nei terribili giorni in cui la guerra si fa largo all’orizzonte orientale, solo poche migliaia di chilometri dal confine, è costruita sul principio di asserzione. Adagiandosi sulle premesse e promesse di un mondo che ha destituito la dialettica a favore dell’attestazione di verità, la società italiana ha rimosso l’aporia, il principio stesso del dubbio, della contraddizione, dell’insolubilità del “tutto”. “Sono una forza del passato” diceva di se stesso Pasolini, e mai come oggi questa definizione appare comprensibile in tutta la sua tragicità. Eppure una delle espressioni estetiche più concretamente teoriche del pensatore friulano, vale a dire la soggettiva libera indiretta, non è forse una rappresentazione del dubbio articolato a partire addirittura dalla soggettività del personaggio, e dunque dalla sua visione? Come può una forza del passato essere omaggiata e ricordata ricorrendo in modo esclusivo agli strumenti del presente, all’agire della contemporaneità? Come se il tempo non esistesse, o fosse uno strumento a uso e consumo dell’oggi, e di chi ha non gli strumenti ma il “diritto” di gestirlo. In una azione quasi automatica del ricordo Pier Paolo Pasolini non è più se stesso, con la messa in crisi sistematica di ogni struttura borghese, ma un “maestro” davanti al quale inchinarsi, togliendosi il cappello. Ma se è vero, com’è vero, che la “Storia insegna ma non ha scolari” come si può pensare di proclamare i maestri senza aver prima aperto le classi agli scolari? E come si può pensare di essere scolari di Pasolini se si accetta il presente così com’è, se non si destituisce l’idea borghese di società, se non si dubita mai di nulla? Si vorrà fare di Pasolini un santino, un’immagine iconica da metter nel taschino e portare con sé a mo’ di patentino di rettitudine? Ma non abbiamo bisogno di statue per Pier Paolo Pasolini, né di targhe da apporre sulle strade che ha attraversato: dopotutto la scultura a Ostia è lì, un po’ abbandonata a se stessa, e va bene così. L’Italia dovrebbe ricordarsi non che Pasolini è stato un grande artista, ma che era ed è una forza del passato. Una forza del passato che come tale potrebbe ancora parlare al presente, ed è pericolosa oggi come cinquant’anni fa. Eretica oggi come allora. Solo con una tale presa di coscienza potrebbe avere davvero senso omaggiare il centenario della nascita di Pasolini. Quale che sia la verità storica, diversa o uguale che possa essere a quella processuale, Pasolini è morto perché con il suo stesso corpo ha vissuto la contraddizione, ha osato non essere neanche allineato a se stesso, oltre che al tempo e alla cultura dominanti. Per omaggiare il centenario della nascita di Pasolini il mondo culturale italiano dovrebbe avere l’ardire di mettersi in crisi, di dubitare di sé, di comprendere la propria antinomia ed elevarla a elemento prioritario di discussione, a forma aperta della dialettica.
L’impressione è che si scambi Pasolini per l’aggettivo pasoliniano, quasi che i due termini possano confondersi senza lasciare scorie: ma in quell’aggettivazione, per quanto all’apparenza colma di senso, c’è proprio la semplificazione forse pianificata della lettura di un pensiero mai contorto ma scopertamente riottoso, impossibilitato alla ricomposizione, alla ricerca di una antropologia del racconto dell’uomo in grado di vivere nelle ceneri del moderno, nella dissoluzione inevitabile della radice. In quell’aggettivazione si rischia di ancorare il pensiero di Pasolini a un viaggio a pelo di sasso tra le periferie del mondo, in una elegia degli “ultimi” che era ancora retaggio del realismo e solo in parte occupava il pensiero di Pasolini. Sarà però quella l’immagine che si vorrà dare dell’uomo e dell’artista, l’immagine di un “genio” che si è messo alla pari con gli umili, con i vilipesi dalla Storia? Un’immagine cristologica, che non ha nulla del vero martirio di Pasolini, del dolore del vivere il tempo, dell’analisi delle strutture della società, della fascinazione per le mille luci occidentali e dell’amore per la lingua friulana che lo aveva svezzato in quel peregrinare di posto in posto che sarà la base portante della sua formazione. Trasformare Pasolini in una sorta di beato che accetta attorno a sé il proletariato e lo eleva dalla sua condizione “reale” è un processo ideologico che va smontato alla sua base. Ma cos’altro può pensare di allestire per il rito della memoria una nazione che ha oramai introiettato la negazione della dialettica hegeliana come unica forma di rappresentazione di sé, e dei propri principi portanti? L’urlo pasoliniano, alla maniera di quello di Allen Ginsberg, fa paura, ed è quindi celato con cura. Il cinema, così come la letteratura, ha scelto la parte della barricata in cui si combattono le giuste battaglie ma si è al sicuro da qualsiasi colpo di mortaio. Nessuno oggi pone il proprio corpo come strumento della dialettica, come messa in crisi della società, come azione muscolare e intellettuale a un tempo di negazione del contemporaneo, e dello status quo. Così il 2022 cinematografico omaggerà il tuffo nel Tevere di Accattone, il girovagare di Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini, l’angelo tentatore di Teorema, forse persino quel Salò o le 120 giornate di Sodoma che è ancora oggi immorale per la società, perché troppo crudelmente morale nella sua visione della perversione. Il rischio è che venga omaggiato Pasolini come si omaggia una reliquia, con lo stesso sguardo fideistico e dunque già privo di negazione, e di dubbio. Il cinema lo omaggerà per potersene liberare? Lo si inserirà una volta per tutte nel pantheon, per poi chiudere a tripla mandata il lucchetto?
No, forse non ha diritto l’Italia di celebrare il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Almeno non in modo “istituzionale”. Sarebbe opportuno spingere i cittadini a riscoprire lo studio del pensiero e dell’arte di Pasolini, ripartendo dalle stupende Poesie a Casarsa scritte a soli vent’anni, o dalle immagini prodotte e pensate, studiate, sempre aperte. E bisognerebbe aprirsi come nazione, come collettività e come Istituzione: aprirsi a tutto ciò che è esterno, viverlo profondamente e non in questa morte imbellettata che è la prassi della vita. Riconoscere la furia, l’odore delle erinni e il loro suono, quel suono ancestrale e modernissimo che è prodotto dall’uomo. Per omaggiare davvero Pasolini è necessario ripartire dall’uomo, dalla sua centralità, dal suo essere vivo. Ne Le ceneri di Gramsci Pasolini scrive:
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Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
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Proprio nel tentativo di ripartire da Pasolini, e dal suo studio, e di esercitare il dubbio speculativo, su Quinlan intendiamo dedicare il 2022 all’interpretazione della sua filmografia, dalle opere da lui dirette a quelle per cui si adoperò alla scrittura (tra l’altro è il centenario anche della nascita di Mauro Bolognini, con cui Pasolini collaborò in varie occasioni), con la speranza di riaprire il discorso, di ritornare alla dialettica, di affrontare un pensiero così elaborato e stratificato che non può essere accettato a scatola chiusa, senza provare ad analizzarlo, e a confrontarcisi. La nostra speranza è quella di riuscire nell’intento, di fungere da tassello nella costruzione di un mosaico di punti di vista, con l’obiettivo che sia di nuovo possibile scrivere che «a Madrid, New York, Parigi, Monaco, sale riservate a pubblici di élites si colmano e traboccano non solo se si proiettano film di Pasolini, ma anche se si discute, e magari in chiave assai tecnica, in modo complesso, della sua opera, della sua persona, della sua vita».