The Wild

The Wild

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Ritmo incalzante, buonissima confezione, continui depistaggi e ribaltamenti. Ma anche sensi di colpa, sacrifici, sentimenti (im)possibili e amicizie da dover per forza ricalibrare, come venature drammatiche di un immaginario che frulla insieme tutti gli ingredienti del gangster movie d’azione fra ex-pugili, disertori, sangue, droga, bordelli e proiettili. Il problema è che, nel dedalo fin troppo rapido e compresso di personaggi, tradimenti, situazioni, doppi giochi e colpi di scena in cui nessuno può fidarsi di nessuno che il coreano Kim Bong-han mette in scena nel rutilante The Wild, ci si ritrova alla fin fine molto più spesso spaesati che realmente intrattenuti, mentre diventa progressivamente sempre più chiaro come il film, nonostante i tanti potenziali temi che intercetta nel suo scorrere, abbia in definitiva poco da dire. In anteprima mondiale al 25mo Far East di Udine.

Tu quoque, Brute, fili mi!

Woo-chul era un pugile di successo finito in carcere per aver ucciso l’avversario durante un incontro. Ora che è stato rilasciato, intende filare dritto. Il suo amico Do-sik è invece disposto a tutto pur di sopravvivere. Dopo aver scelto strade diverse, si troveranno l’uno contro l’altro, a combattersi e a tradirsi a vicenda perché la vita, a differenza della boxe, colpisce sotto la cintura. [sinossi]

È paradossale come sia in qualche modo da rintracciare proprio all’interno del suo principale pregio, il maggiore difetto del vulcanico ma un po’ troppo confuso The Wild. Un gangster movie tutto votato all’azione e intriso di sfumature poliziesche e mélo, nel quale il coreano Kim Bong-han, con un ritmo forsennato e un minutaggio decisamente più contenuto rispetto alle ipertrofiche e spesso ingiustificate medie del genere, ne frulla insieme tutti gli elementi più tipici in un film che fra ex-pugili in crisi di coscienza, narcotrafficanti, puttane, ambigui disertori nordcoreani e sbirri fra i più tossici e corrotti di un Paese lurido e desolante nel suo trasudare atavica criminalità, continui tradimenti e repentine deflagrazioni muscolari non vuole lasciare lo spazio nemmeno per un attimo di tregua, instancabilmente teso fino all’ultimo respiro. Eppure, è proprio in questo andamento così particolarmente incalzante di ellissi narrative, doppi giochi, corse contro il tempo e reiterati depistaggi in cui nessuno può realmente fidarsi di nessuno che il film, per quanto effettivamente avvincente ed esplosivo nell’ininterrotto succedere di qualcosa, finisce per non lasciare allo spettatore nemmeno il tempo necessario per elaborare che cosa stia effettivamente accadendo e quali siano le reali indoli e motivazioni dei tanti personaggi, chi di volta in volta stia complottando alle spalle di chi altro e per quale motivo, quale interesse ci sia dietro all’ennesimo (in)aspettato tradimento e al nuovo, ennesimo, cambio di schieramenti. Tanto che, a conti fatti, durante la visione ci si ritrova sì a sperare nella salvezza dell’eroe e della sua bella, ma in definitiva molto più spesso spaesati che realmente partecipi e intrattenuti, almeno a tratti smarriti nel dedalo un po’ confuso di personaggi secondari, ambiguità e fila narrative che si accatastano, si intrecciano e progressivamente si ingarbugliano all’interno di un calderone in cui praticamente ogni sequenza, magari montata in parallelo con altre, inizia e finisce in medias res. Fino a chiedersi se per caso (per quanto, si badi bene, questa sia una mera speculazione e non si abbiano reali notizie sulla genesi del film) la scelta di rimanere al di sotto delle due ore, anziché figlia di un progetto di ricalibrazione a monte della sceneggiatura volta a tagliare le fasi di stanca e le futili sottotrame che troppo spesso nel cinema contemporaneo allungano a dismisura il brodo della stragrande maggioranza delle operazioni assimilabili a questa, non sia stata invece per The Wild una sorta di compressione con l’accetta di un film inizialmente concepito con tutte le lungaggini del caso (e la solita rivedibile tendenza a chiudersi inanellando quattro finali consecutivi) per i 130-150 minuti diventati ormai standard del blockbuster digitale, salvo poi decidere solo al tavolo di montaggio di tagliarlo e in qualche modo accelerarlo, senza però essere disposti a rinunciare a sequenze e increspature narrative secondarie che finiscono per appesantirlo senza nulla aggiungere al suo scorrere, fino ai definitivi 106′ con cui è giunto, in anteprima mondiale ma senza autori a presentarlo, al 25mo Far East di Udine. Come se di fosse deciso di lasciare il troppo delle ramificazioni accessorie della trama o dei personaggi superflui, scegliendo invece di recidere parte delle necessarie connessioni logiche fra ciò che invece ha senso che accada, parte dei rapporti fra le azioni e le reazioni, la necessità fisiologica di un minimo di respiro fra una rivelazione e la sua immediata contraddizione. E forse anche il reale senso di un film che nel suo scorrere lambisce il conflitto fra le due Coree, quello fra la criminalità e la legge, quello fra il desiderio e i sentimenti, quello fra l’amicizia e il ricatto, quello fra l’interesse e il sacrificio, ma in definitiva non sembra volere realmente ragionare su nulla di tutto questo. Sono solo elementi che Kim Bong-han usa semplicemente come MacGuffin, come componenti portanti o semplicemente di sfondo della storia che vuole raccontare, senza una reale intenzione di analizzarli o di sviscerarli. Il che, in un film dal respiro così smaccatamente popolare, non sarebbe nemmeno di per sé un problema: l’alta ambizione di coniugare l’intrattenimento con la profondità della riflessione non è necessariamente un obbligo per ogni prodotto pensato per l’industria cinematografica, al massimo è quello che distingue un grande film di un grande autore da un’operazione commerciale, non per forza meno dignitosa, che vuole semplicemente essere media, non pretenziosa e in definitiva godibile per passare una serata di svago. A patto però che il racconto e gli elementi linguistici filino senza intoppi. In The Wild, per troppo lunghi tratti, sembrano invece arrancare e soffrire, capaci di non perdere mai realmente la direzione e la coerenza di fondo della narrazione, ma finendo per renderle inutilmente meccaniche e faticose, per nasconderle e quasi soffocarle sotto al peso dei mille cambi di schieramento troppo improvvisi, della marea di dialoghi non sempre a fuoco fra i doppi e i tripli giochi dei protagonisti, di intere sequenze (le ripetute false offerte di lavoro fra l’uno e l’altro, le altrettanto false denunce e contromosse, non poche risse immotivate e un doppio stupro francamente un po’ gratuito) che irrompono apparentemente scollegate e altrettanto all’improvviso svaniscono senza lasciare traccia.

Eppure avrebbe belli che pronti sul tavolo tutti gli elementi per costruire il suo marchingegno alla perfezione, il film di Kim Bong-han. Da una parte la consueta ottima confezione tecnica sempre più tipica dell’industria coreana, con una messa in scena priva forse di particolari guizzi (a parte forse il breve prologo che sin da subito grida l’ovvia ispirazione cercata in Martin Scorsese, con quei flash in freeze-frame sul fatale incontro di boxe a introdurre quello che sarà un fellas movie con un chiaro sospiro a Toro scatenato) ma sempre perfettamente funzionale allo spettacolo, e dall’altra come già anticipato tutti gli ingredienti-cardine del genere, dall’antieroe protagonista appena uscito dal carcere e corroso dai sensi di colpa che vorrebbe tenersi al di fuori dei guai ma si ritrova suo malgrado in un gioco troppo più grande di lui all’amico di una vita che sta invece ai vertici di un clan di gangster e non si fa alcuno scrupolo a trascinarlo nel suo baratro, dallo spietato poliziotto sadico, eroinomane e violento con cui fare a pugni, essere salvato, forzatamente allearsi e poi magari uccidersi fino al narcotrafficante già disertore politico al Nord che chiuderà il triangolo di potere con cui l’ex-pugile redento Woo-chul dovrà necessariamente finire per scontrarsi, fingere, stringere accordi e continuamente ridiscutere la natura di ogni rapporto. Passando per gli altri vecchi e nuovi “amici”, per un intero bordello da gestire, per un carico di droga da recuperare fra trappole, omicidi e valigie piene di denaro, per i parenti delle vittime che reclamano la propria vendetta e per un intero campionario di microspie, temporanee alleanze e ripetute manipolazioni. Passando per una stazione di polizia «posto più sicuro al mondo» e per i parcheggi più isolati in cui incontrarsi, per il rimorso che non fa dormire la notte ripensando a quel vecchio incontro e al pugile avversario tragicamente morto sul ring sotto i guantoni di Woo-chul e poi per il suo progressivo scoprire la verità su come l’incontro fosse effettivamente truccato con l’avversario sedato fra una ripresa e l’altra, e come quindi l’incidente sportivo fosse stato in realtà effettivamente un omicidio, ma anche come la colpa non fosse in alcun modo sua ma del suo (falso) amico criminale. E poi soprattutto c’è Bom, la prostituta immancabilmente ex della vittima e altrettanto immancabilmente al centro del triangolo con il violento poliziotto corrotto. La donna da salvare e di cui innamorarsi, da cui farsi inizialmente abbindolare e poi spalleggiare dopo averne conquistato la fiducia e l’amore con gli unici atti di umanità in un mondo bestiale. La donna da proteggere quando viene aggredita e da coprire, calmare e ringraziare quando ucciderà per difesa. La donna che Woo-chul sogna di portare via con sé verso un altro luogo in cui iniziare una nuova vita insieme, finalmente liberi e felici, lontani dai ricordi e dal dolore. L’unico rapporto sincero – e a ben vedere gli unici due personaggi con un minimo di spessore psicologico e di motivazioni, magari contrastanti, che vadano oltre i soldi e i vizi più beceri – di un tutti contro tutti di manipolazioni e tradimenti, di false alleanze in cui usare l’altro e di impossibilità di potersi realmente fidare di qualcuno. Nemmeno degli amici più cari, nemmeno delle brave persone esterne alla malavita. Perché c’è sempre qualcosa che non si può sapere dell’altro, c’è sempre il rischio che qualcuno lo possa forzare a fare ciò che non vuole, c’è sempre un punto debole o il rischio di una vendetta trasversale che, anche se fra le lacrime, può trasformare Abele in Caino e Caino in Abele, o magari perfino Giuda in San Pietro. Fra chi vive e chi muore, chi si buca e chi cospira, chi rinnega e chi ama. Chi non mostra alcuno scrupolo e chi invece non ha paura di esporre le proprie vulnerabilità. È per questo che è un vero peccato, l’effettiva riuscita di The Wild. Perché le possibilità per un film destinato a rimanere ci sarebbero state davvero tutte. Perché l’aspetto visivo è ben curato, perché gli attori (in testa il Woo-chul di Park Sung-woong) tengono la parte meglio di come sia scritta, perché il soggetto porta in nuce diversi potenziali interessanti e avrebbe meritato una sceneggiatura con meno orpelli e più pensiero. Certo, rimane il ritmo incalzante, rimane la detection, rimane lo spettacolo. Ma non può bastare. Tanto più se la narrazione più compressa rispetto al solito film di gangster, alla fin fine, nient’altro è che l’ennesimo tradimento, questa volta di ciò che avrebbe potuto essere il film stesso. Un lavoro che, per durata e per andamento, avrebbe potuto realmente smarcarsi dalle pastoie e dai difetti sempre uguali di troppi film di genere fatti più o meno in serie, e che invece ne è semplicemente una versione più veloce e difficoltosa da seguire. Sbagliando forse in modo un po’ diverso, ma pur sempre con tutto quello che non serve ancora lì. Solamente un po’ più rapido.

Info
The Wild sul sito del Far East.

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