Youth (Spring)

Youth (Spring)

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Il mondo cambia, la Cina cambia, il cinema di Wang Bing almeno in parte cambia a sua volta: in Youth (Spring), primo capitolo di una ideale trilogia sulla classe operaia metropolitana, la videocamera si muove tra i lavoratori del comparto tessile con stile quasi wisemaniano, nel tentativo di catturare la “verità” di un complesso umano, e non di singole individualità. Un’opera che si sviluppa attraverso ripetizioni sonore e visive e immerge lo spettatore in un gorgo infernale nel quale, nonostante tutto, continua a sorgere la primavera della vita. In concorso al Festival di Cannes.

La classe operaia va all’inferno

Zhili, a 150 km da Shanghai. In questa città dedicata alla produzione tessile i giovani lavoratori provengono da tutte le regioni rurali attraversate dal fiume Yangtze. Sono poco più che ventenni, condividono dormitori e fanno merenda nei corridoi. Lavorano instancabilmente per poter un giorno crescere un figlio, comprare una casa o aprire un proprio laboratorio. Tra loro ci sono amicizie e storie d’amore che si fanno e disfanno seguendo le stagioni, i fallimenti e le pressioni familiari. [sinossi]

È interessante notare come Youth (Spring), vale a dire Qingchun, approdi in concorso al Festival di Cannes venti anni dopo l’irruzione di Wang Bing sul proscenio internazionale: era infatti l’estate 2003 quando a Marsiglia venne presentata finalmente la versione integrale di Tiěxī Qū, Il distretto di Tiexi, che in nove ore e un quarto suddivise in tre capitoli – Ruggine, Vestigia, e Rotaie – documentava in modo straziante la lenta agonia del più grande complesso industriale cinese. Nel febbraio 2002 in realtà si erano già potute vedere cinque ore di montaggio, ma fu solo con la fluviale proiezione marsigliese che si iniziò a comprendere l’unicità dell’approccio documentario di Wang, e la peculiarità del suo sguardo. Molti sono stati gli sguardi dubbiosi al termine di Youth (Spring), e la mente è dunque subito corsa indietro nel tempo, come se i corsi e ricorsi storici avessero davvero un peso determinante. Anche questo nuovo film di Wang, quindicesimo documentario della sua filmografia – che conta anche un film di finzione, quel The Ditch presentato come “sorpresa” durante la Mostra di Venezia 2010, la penultima edizione sotto l’egida di Marco Müller – nasce per diventare un trittico, come dichiarato in più occasioni dal regista. Anche questo film si concentra sulla classe lavoratrice anche se rispetto al complesso industriale di Tiexi la città di Zhili non può certo dire di vivere un periodo di crisi: a circa centoquaranta chilometri a ovest di Shanghai, non distante dal lago Tai Hu e dall’estuario dello Yangtze, Zhili ha sviluppato il commercio attorno alla produzione tessile, con particolare attenzione per la lavorazione dei capi d’abbigliamento per i bambini. In laboratori luridi che si affacciano su strade ancor meno commendabili, gli operai trascorrono l’intera giornata, lavorando con orari massacranti per poi dormire negli squallidi dormitori messi a disposizione dai padroni. È in questo scenario umano e lavorativo che si è mosso Wang per cinque anni, tra il 2014 e il 2019 – prima dunque dell’esplosione della pandemia, e questo è un dato in ogni caso rilevante –, seguendo il lavoro quotidiano, cercando di cogliere l’intimità di questi operai giovanissimi (si va dai 16 ai 25 anni, più o meno) che vorrebbero solo trovare il modo per vivere dignitosamente, metter su famiglia, trovare la propria strada professionale e affettiva.

C’è un duplice movimento attorno al quale si costruisce quasi per intero il senso di Youth (Spring): da un lato la reiterazione sonora, con il rumore delle macchine da cucire che domina quasi interamente il film, dettando i ritmi del lavoro ma anche quelli dello sguardo, che non può non divenire vittima del tran tran, dell’infinito replicarsi del medesimo schema; dall’altro c’è invece la transitorietà pressoché totale dei personaggi che entrano in scena. Il lavoro in questi laboratori improvvisati è sfiancante, e difficilmente gli operai restano nel medesimo luogo a lungo, così Wang che pur segue con maggiore attenzione le vicissitudini di un paio di ragazzi è costretto a muoversi a volo d’angelo, quasi in maniera impressionistica. Chi dovesse pretendere da un documentario la parabola umana dei protagonisti non troverà soddisfazione, e se questo pure dovesse essere considerato un punto di debolezza del film, in qualche modo connota con forza il senso dell’esperienza cinematografica di Wang: scegliere delle figure cardine e seguirle in modo continuativo avrebbe significato personalizzare un discorso che è altresì universale, collettivo, e non singolo. La vita della classe operaia è quella di una classe, in particolar modo nel momento in cui le condizioni di lavoro sono uguali, la paga è misera allo stesso modo, e tutti dormono e mangiano insieme. In una terra che di fatto ha annullato ogni forma sindacale è interessante – di più, utile – osservare in quale modo le rivendicazioni collettive vengono portate agli occhi dei datori di lavoro, che per di più spesso sono quasi coetanei degli stessi operai. Lo stile di Wang si fa quasi wisemaniano, incollandosi alle situazioni e cercando di cogliere il senso ultimo del sistema, con uno sguardo che si fa immediatamente politico pur senza mai disperdere l’interesse verso l’umano, le sue esigenze, le sue abitudini. I desideri “semplici” della classe operaia arrivano con forza allo spettatore, così come le difficoltà inerenti lo sposarsi – una ragazza spiega all’innamorato che la loro resterà solo un’avventura, perché i suoi genitori non le permetteranno mai di sposare qualcuno più povero di loro; un ragazzo invece cerca di convincere la sua fidanzata che senza l’aiuto economico dei genitori non potranno mai ambire ad avere una casetta tutta per loro – e il metter su famiglia.

Giocoforza quella di Wang diventa una mappatura generazionale e di classe, in un’operazione che non è poi così dissimile da altre tentate dal regista cinese nel corso degli anni: il nord-est del Paese ne Il distretto di Tiexi, lo Yunnan (e dunque il sud-ovest) ne Le tre sorelle, sono solo alcuni degli esempi possibili per comprendere come il documentario nelle mani di Wang sia anche un modo per riuscire a raccontare la Cina, la sua stratificata complessità, l’umanità ribollente che la agita, la sommuove, la modifica impercettibilmente anno dopo anno. Così nonostante Youth (Spring) abbia ben più di qualcosa in comune con Bitter Money – l’ambientazione è esattamente la stessa – è possibile cogliere alcune differenze sostanziali, a partire dalla già citata mancanza di protagonisti chiari, e da una presenza in scena che si fa a volte inevitabilmente invadente, anche se Wang rifugge qualsivoglia tentazione di spettacolarizzazione di ciò che sta riprendendo. Tra giochi notturni a colpi di panna montata, litigate furibonde in laboratorio, ragazze che devono abortire e amori che non riescono a sbocciare, Wang riesce a restituire una realtà stratificata, che però riesce a donare un’immagine della Cina ancora spersa tra la memoria maoista – e Mao d’altro canto fa la sua bella figura sulla carta-moneta che arriva nelle mani degli operai il giorno di paga – e un presente ultracapitalista, dove la manodopera è alla mercé del padronato. In tutto questo, come ogni primavera che si rispetti, Wang non fa mancare un finale dove infine si può emergere dal frastuono sempre uguale a se stesso delle macchine da cucire per provare un corteggiamento in un paesino di campagna, nella casa di famiglia, magari sotto il quadro preferito della madre del ragazzo. Perché Youth (Spring) ricorda che la classe operaia, anche quando va all’inferno (e Zhili ne è una plastica rappresentazione), vive, desidera, sogna. Non sarà l’opera più compiuta del cinema di Wang – anche se è doveroso attendere la versione definitiva tripartita – ma una lezione simile basta a elevarla al di sopra della stragrande maggioranza del cinema contemporaneo.

Info
Youth (Spring) sul sito del Festival di Cannes.

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