La strada

La strada

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Sostanziale ponte fra l’Espressionismo e la Nuova Oggettività, opera-manifesto del sottogenere “film di strada” e testo fra i più fondamentali del cinema tedesco degli anni Venti nella sua agile commistione di generi, La strada di Karl Grune torna a un secolo esatto dalla sua realizzazione sul grande schermo delle 42me Giornate del Cinema Muto di Pordenone, accompagnato dalla nuova partitura per pianoforte, violino e batteria appositamente composta da Günter Buchwald. Un’allegoria di una Germania piccolo borghese priva di autocontrollo e facile a cedere alle più oscure pulsioni di perdizione, in qualche modo già incanalata verso quello che, un decennio dopo, sarebbe stato il suo inesorabile scivolare nella dittatura.

Non c’era altro da fare che vagare sotto le stelle

Un uomo di mezz’età, con fare annoiato, è disteso sul divano. Le luci provenienti dalla strada, quella sera, riflettendosi sul soffitto, lo inducono a trascinarsi, a passi tardi e lenti, alla finestra. Una serie di visioni lo attirano verso quel baluginio luccicante. La moglie mette in tavola la cena, ma lui è già uscito di casa… [sinossi]

Per ragionare sul ruolo fondamentale di anello di congiunzione fra l’Espressionismo e la Nuova Oggettività svolto nella storia del cinema tedesco da La strada, in originale semplicemente Die Straße, realizzato nel 1923 da Karl Grune, basterebbero forse le ombre che dalla finestra si proiettano sul soffitto della casa trasformandosi, negli occhi dell’anonimo protagonista piccolo borghese nella Repubblica di Weimar, in sagome del tutto nuove e affascinanti di immaginazione e desiderio. Basterebbero le suggestioni del suo sguardo fuori dalla finestra, rapito in un turbinio astratto di dissolvenze incrociate, di mascherini tondi, di doppie e triple esposizioni, di avvicinamenti e allontanamenti sullo stesso asse, di rifrazioni prismatiche che moltiplicano il caos della città, e poi ancora, quando si sarà ormai buttato a capofitto nella perdizione della notte, dalle rotazioni circolari e vorticose sull’asse verticale del night club fra cosce, bottiglie, privé e tavoli da gioco. Basterebbe il suo sesto senso che trasforma sin da subito l’oggetto del suo più scabroso desiderio nell’orrore allucinato di uno scheletro, oppure quel suo senso di colpa che gli riapparirà come un’illusione fantasmatica nel circolo della fede nuziale appena sfilata dal dito. Basterebbe la simbologia da sempre anche emotiva del cappio, legato però alla salda concretezza delle sbarre dietro le quali magari (rischiare di) scontare un delitto mai commesso. Intuizioni formali evidentemente legate alla corrente Espressionista del cinema teutonico codificata solo tre anni prima da Il gabinetto del dottor Caligari, eppure già del tutto slegate dalle inquadrature sghembe e dai fondali dipinti del capolavoro di Robert Wiene, ma al contrario innestate in una ben precisa e perfettamente realistica – comprese le sue anticipazioni intrinsecamente orrorifiche, come la Storia dimostrerà nei decenni successivi con l’ascesa nazista al potere – contemporaneità politica e sociale. Quella di una Germania intenta a leccarsi le ferite economiche del primo dopoguerra, sempre più divisa nelle sue disuguaglianze di classe e nel frattempo abbastanza impulsiva, egoista e immatura da non rendersi nemmeno conto di stare spianando la strada a quello che sarebbe stato il disastro dell’autoritarismo e del Terzo Reich. Una Germania di storture e deformazioni, di esagerazioni da una parte o dall’altra fra la ribellione al precostituito e la repressione più reazionaria, da raccontare non più solo nei suoi incubi ma anche nelle sue vicende reali, quotidiane, introspettive, finendo per innestare, consapevolmente o meno, il primo seme del ritorno al nuovo realismo che fiorirà definitivamente negli anni successivi con il cinema (non solo) di Pabst. Come nella sequenza, quasi asfissiante nella sua tensione, in cui la bambina involontariamente sfugge al nonno cieco e si ritrova in mezzo a un incrocio trafficato, come in quella successiva con il dolore straziante del nonno che non ha modo di trovarla (se non già a casa, riportata da un poliziotto e messa a letto da una vicina) mentre solo l’umanità di un singolo sconosciuto lo aiuterà a rialzarsi nell’indifferenza generale. O ancora come nella straordinaria partita di carte, magistralmente gestita in stacchi rapidissimi, adrenalinici primi piani e sudori freddi, in cui saranno le direzioni prese dalla fortuna a decidere sulla rispettabilità o meno di un uomo. Fino all’omicidio che rimetterà tutto ancora una volta in discussione, e all’innocente testimonianza casuale della bambina a rimettere in qualche modo le cose a posto. Ma non corriamo troppo, andiamo per ordine.

L’intreccio, che nel suo guardare alle seduzioni della vita notturna come a un caotico rutilare che non può che mangiare l’anima inaugura la tradizione dei film di strada tedeschi che troverà quattro anni dopo nel documentario sperimentale di Walter Ruttmann Berlino – Sinfonia di una grande città il suo esponente più autorevole, è un pirotecnico tutto in una notte, con sottotrame e personaggi destinati a convergere nel prefinale di delitto, castigo e salvataggio proprio quando tutto sembra perduto. Cercando il più possibile di riassumerlo, un uomo è in casa sdraiato sul divano, annoiato dalla sua monotona vita lavorativa e coniugale, in attesa che la moglie finisca di scaldare la solita minestra di ogni sera. Attratto dalle luci della strada notturna che si riflettono sui muri di casa fino a stimolare la sua immaginazione e i suoi più reconditi desideri, prende bombetta e ombrello e senza dire nulla esce per inoltrarsi nel caos cittadino. Dopo una serie di incontri casuali e di tentativi di adescamento falliti, si ritroverà in una balera (per molti versi un proto-L’angelo azzurro, anche se con uno sviluppo e un epilogo totalmente differenti da quelli che nel 1930 von Sternberg trarrà dal Professor Unrat di Heinrich Mann), al tavolo con una sensuale e provocante prostituta, con il suo pappone (che nel frattempo ha lasciato a casa la figlioletta con il nonno cieco) accompagnato da un suo amico e compagno di truffe, con un ricco avventuriero di provincia come scomodo concorrente e, come anticipato, con un mazzo di carte in mano che diventerà irrefrenabile metamorfosi e delirio ludopatico in tutti si giocano tutto sospinti dalle alterne fortune. Dopo avere toccato il fondo ed essere in qualche modo risalito, compresi l’anello nuziale e un assegno conservato per conto e su fiducia del reale intestatario buttati, persi e infine rivinti sul tavolo, il protagonista seguirà ancora la donnaccia fino al suo appartamento, dove tutti si ritroveranno nel giro di poche stanze, ci scapperà il morto e verrà formalizzata un’ingiusta accusa nei suoi confronti in base a fraintendimenti e false testimonianze, fino a quando solo il purissimo caso della figlioletta che proprio di fronte al giudice inavvertitamente smaschererà le menzogne del padre gli permetterà di passare dal tentativo di suicidio al ritorno a casa e a quella minestra che forse, in fondo, non era poi così male. Una traiettoria morale sin troppo chiara e forse un filo conservatrice, nella quale cedere alla tentazione della strada divoratrice di vite umane per poi imparare ad accettare di buon grado la consuetudine, le regole, la mediocrità del quotidiano; eppure non è certo questo il punto interessante del film, anzi lo è l’opposta e totale libertà nelle forme e nei contenuti con cui Grune sceglie di commistionare generi, rivoluzionare correnti, intersecare differenti modalità narrative e cercare, dopo un’apprezzata carriera come regista teatrale e di parola, nuove vie linguistiche nel silenzio ma nelle già infinite possibilità espressive del cinema. Con un dramma anche duro, doloroso, che però qua e là si alleggerisce in ripetute gag comiche di chiara ispirazione chapliniana, apre all’improvviso alle apparizioni fantasmatiche dell’horror o alle sperimentazioni visive delle Avanguardie, non ha bisogno di sfilare via nemmeno un vestito ma si permette un erotismo audace e irriverente pronto a declinare la stessa perdita di controllo nel gioco, e al momento dell’omicidio e dei ribaltamenti della breve indagine sembra già un noir degli anni Cinquanta. Alla ricerca di una lingua cinematografica universale con cui utilizzare il movimento e il montaggio ben più che il dialogo (secondo alcune fonti il film sarebbe stato concepito da Grune del tutto privo di didascalie e i pochi intertitoli presenti sarebbero apocrifi e successivi, secondo altre invece il restauro digitale di proprietà del Filmmuseum München presentato alle 42me Giornate del Cinema Muto rappresenterebbe la versione il più possibile vicina all’originale) per portare sullo schermo una narrazione come flusso di sensazioni e di emozioni sempre diverse eppure sempre perfettamente coerenti, credibili, semplicemente da condividere. Una direzione verso la quale, con i suoi continui cambiamenti di strumento, ritmiche e genere musicale dalla sonata al jazz, si spinge anche la sonorizzazione recentemente composta per La strada dal pianista, violinista e maestro d’orchestra Günter Buchwald, da lui stesso eseguita nella buca del Teatro Verdi di Pordenone con l’accompagnamento di Frank Bockius alla batteria. Per un film in qualche modo da esperire più ancora che da guardare, e senza dubbio da riscoprire e da anzi da ricominciare a studiare, fondamentale tassello nello sviluppo del cinema di Weimar e allegoria della crescente sfiducia di un’intera nazione incapace di trovare i necessari compromessi per tappare le sue falle, colta nella sua continua altalena fra il grigiore di una quotidianità frustrata e il richiamo più brutale verso le sirene affascinanti e menzognere della perdizione e della rovina.

Info
La strada sul sito delle Giornate del Cinema Muto 2023.

  • la-strada-1923-die-strase-karl-grune-01.jpg

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