Ben-Joe

Ben-Joe

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Una storia di cronaca ispira il film Ben-Joe, opera seconda del giapponese Akira Iwamatsu presentata al 27° Tallin Black Nights Film Festival. Con il linguaggio del cinema di genere nipponico contemporaneo, il film racconta una vicenda reale che già di per sé si configura come un j-horror.

Come in uno specchio deformato

Saki Omura è una studentessa universitaria che vive una vita apparentemente pacifica con la sua famiglia. Un giorno incontra Rena, compagna affascinante e desiderata da tutti, e ambisce a diventare come lei, ma la sua relazione con la coetanea si deteriora. Il rifiuto sociale e l’umiliazione la portano alla bulimia nervosa. La ragazza viene quindi portata in una casa di cura, che si rivela un lager. [sinossi]

Quando la realtà supera la fantasia, quando il j-horror è rappresentato da un fatto di cronaca che potrebbe essere stato partorito dalla fantasia malata di un Takashi Miike: è il caso della storia vera raccontata dal film Ben-Joe, presentato in concorso alla 27ª edizione del PÖFF. Ne è autore Akira Iwamatsu, critico cinematografico e giornalista, che si cimenta, per la seconda volta, dietro la macchina da presa. La storia è quella di Saki, tipica adolescente di una famiglia benestante, alle prese con problemi affettivi, competitività nel mondo scolastico, e una situazione famigliare non semplice dovuta a una sorella con problemi di ritardo mentale. Ciò porta la ragazza a gravi problemi di bulimia per la quale viene mandata dalla madre in un centro di recupero che si definisce alternativo, guidato da un infervorato dottore che si proclama artefice di una crociata contro i disturbi alimentari psicogeni, che considera il risultato della società dei consumi. Ma il centro si rivela quale un misto tra la casa della donna di Misery non deve morire e San Patrignano, un vero e proprio lager dove la ragazza viene tenuta segregata e subisce violenze di ogni tipo, anche sessuali. Il film si compone di due parti. La prima è psicologica/sociologica, racconta la condizione della protagonista, le pressioni sociali, la competitività, il clima famigliare. Tutte cose molto tipiche tra gli adolescenti giapponesi. Tutto ciò in un flashback che parte dopo la scena iniziale, con il mad doctor che pontifica sui mali della società, personaggio che poi tornerà facendo finire il flashback e dando vita all’incubo. Il regista sa usare uno stile elegante, che passa per le immagini di un grande specchio segmentato, in cui la ragazza si riflette, spesso vedendosi più grassa, e per un momento in cui la scena in casa si sovrappone agli occhi di Saki, segno che tutto passa attraverso il suo punto di vista. Potrebbe essere tutto il frutto della sua mente disturbata.

Akira Iwamatsu opera da un lato a una demolizione estetica del cibo giapponese, di quella tradizionale cucina tanto accurata nell’esposizione delle vivande da essere uno dei vanti nazionali. Il vomito, il divorare bulimicamente gli avanzi di cibo, il junk food, il taccheggio al supermercato. I momenti in cui si mangia, o associati al mangiare, sono numerosi nel film, tanto di cibo occidentale, come gli spaghetti all’italiana mangiati in famiglia con le posate, che giapponese, e spesso sono associati a sensazioni sgradevoli. Il film assume, in modo non atipico nel cinema giapponese, una cadenza temporale che segue i mesi dell’anno, il susseguirsi delle stagioni, cosa che rappresenta uno dei cardini della filosofia tradizionale nipponica, per quel che riguarda il cibo e non solo. E a rappresentare la cultura nazionale è anche il padre di Saki, contro cui si scatena il conflitto generazionale. L’uomo infatti è un docente di letteratura, studioso di Akutagawa, il grande scrittore di inizi Novecento, aperto alle influenze occidentali (il suo rapporto con l’individualismo occidentale è il tema di una lezione del padre di Saki). Scrittore che è simbolo di classicità anche in campo cinematografico, in quanto autore dei due racconti che diedero vita a Rashomon. Il rapporto conflittuale con il genitore diventa così un conflitto con la cultura tradizionale.

È un Giappone inumano, senza punti di riferimento, quello che trapela dal film. Dove capitalismo e consumismo hanno ormai cancellato i valori tradizionali. Ma dove seguire chi promette di combattere il sistema si rivela come passare dalla padella alla brace. Iwamatsu sembra ripartire da quel ritratto grottesco del paese lasciato incompiuto da Juzo Itami, che stava peraltro affrontando il mondo delle sette religiose, molto diffuse in Giappone. Tutto scivola in un incubo, ma Saki si ribella, come uno degli adolescenti disturbati del cinema di Wakamatsu, contro quel lager dove è tenuta prigioniera, metafora delle sovrastrutture sociali opprimenti, e contro la sua stessa famiglia. Il passaggio dalla prima alla seconda parte è sì il passaggio da un racconto di realismo sociale a un exploitation carcerario, ma anche un passaggio da uno stile realistico a uno metaforico.

Info
Ben-Joe sul sito delle Black Nights.

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