Slow Shift
di Shambhavi Kaul
Presentato in concorso alla 60ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (dove ha ottenuto il riconoscimento al miglior film), Slow Shift della filmmaker indiana Shambhavi Kaul è un cortometraggio che esplora un territorio ancestrale, un paesaggio roccioso che sembra giocarsi su un equilibrio precario, un mondo instabile abitato dall’uomo nel passato, dove sono le scimmie a ergersi da guardiani e a contemplare quei paesaggi.
Il pianeta degli entelli
Girato a Hampi (India) fra le rovine di una città del XIV secolo, attualmente patrimonio salvaguardato dall’Unesco. Le inquadrature fisse di massi di roccia enormi si alternano con riprese di piccole frane. Non c’è un’anima, se non fosse per quelle scimmie che hanno un’inquietante somiglianza con gli umani. Vediamo i ruderi di architetture in stile “altro”, che chiaramente denotano tradizioni molto lontane nel tempo e nello spazio. [sinossi]
Un fiume in campo lungo, un paesaggio roccioso, un cespuglio, un albero popolato da scimmiette, un antico colonnato, parte delle rovine di un’antica città. L’acqua, i minerali, i vegetali, gli animali e l’uomo, rappresentato dalle vestigia di costruzioni del passato. Nelle inquadrature del film sono quasi sempre più di una di queste categorie di elementi. Con questa partitura di immagini si apre Slow Shift, cortometraggio della filmmaker indiana Shambhavi Kaul. Un montaggio che indica un luogo attraverso suoi aspetti, fortemente reminiscente di L’alba dell’uomo, la prima parte di 2001: Odissea nello spazio. Siamo a Hampi, nello stato indiano del Karnataka, sulle rive del fiume Tungabhadra, fra le rovine dell’antica città di Vijayanagara, capitale dell’omonimo impero che fiorì fra il XIV ed il XVII secolo. Un territorio desolato e rarefatto dove non ci sono (più) uomini, dove è il genere umano è rappresentato solo da antiche costruzioni in continuità con il paesaggio roccioso, degli stessi materiali recuperati in loco, o con delle scalinate intagliate nella roccia. Un pianeta delle scimmie, in cui le rovine equivalgono alla punta della Statua della Libertà. Oppure un esoterico Hanging Rock dove gli uomini sono svaniti. Oppure un mondo postatomico. Un territorio dominato dagli entelli, un genere di primati sacri, considerati discendenti del dio-scimmia Hanuman e protagonisti di più episodi del poema epico indiano Rāmāyaṇa. Gli entelli sono i guardiani di quei paesaggi, che contemplano indisturbati, con il loro sguardo fiero, come portatori di una superiore saggezza.
Slow Shift mostra un paesaggio roccioso che si manifesta come precario, instabile, con delle enormi masse come in bilico, impilate su rocce sottostanti o poggianti su spigoli di altre formazioni. E più volte nel film assistiamo a degli smottamenti, a delle frane, a perdite di equilibrio con ricreazione di nuovi equilibri. Un masso sembra muoversi magicamente da solo, c’è posto anche per una dimensione esoterica in un territorio, come quello oggetto del film, dove si incrociano tempi geologici, tempi biologici e tempi storici. Non è facile distinguere tra ciò che è stato modellato dall’uomo da ciò che lo è stato dalla natura, da vento, acqua, agenti d’erosione. La natura si sta riprendendo la sua morfologia irregolare. La regia gioca sul contrasto tra i primi piani, la siepe leopardiana, e gli “interminati spazi al di là di quella”. E, tornando all’incipit di 2001: Odissea nello spazio, alla fine compare la luna, ammirata prima da una scimmietta e poi da tante di queste, radunatesi su un’antica scalinata umana. E poi il sole sorge, e si alza all’orizzonte. Il tutto è iscritto in movimenti cosmici, meccaniche celesti, secondo dinamiche cicliche. L’alba dell’uomo probabilmente si è già conclusa con il suo tramonto.
Info
Slow Shift sul sito di Pesaro.
- Genere: sperimentale
- Titolo originale: Slow Shift
- Paese/Anno: India | 2023
- Regia: Shambhavi Kaul
- Fotografia: Joshua Gibson
- Montaggio: Lalitha Krishna
- Durata: 9'