Leone l’ultimo

Leone l’ultimo

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Per celebrare i 90 anni della nascita di Marcello Mastroianni, CG Home Video e Pulp Video hanno recuperato in dvd Leone l’ultimo, opera dimenticata di John Boorman. Rara occasione felice di Mastroianni fuori dai confini italiani, un racconto allegorico su potere e anarchia, in piena atmosfera contestataria.

Leone, ultimo di una dinastia spodestata dalla rivoluzione socialista, si stabilisce a Londra, in un lussuoso edificio acquistato dal padre al centro di quello che è adesso un quartiere abitato principalmente da neri. L’uomo passa il tempo a scrutare i loro movimenti dalla finestra con un cannocchiale, e si accorge di quanta miseria e soprusi siano vittime i suoi vicini. Decide quindi di fare qualcosa per aiutarli… [sinossi]

Tempi di utopie, tempi di grandi pensieri. Certo cinema invecchia rapidamente, e non tanto perché le scelte stilistiche che l’hanno guidato siano state superate da nuove tecniche, ispirazioni e retoriche. Invecchia perché più di tutto è tristemente sparito un orizzonte culturale che lo sostenga e lo giustifichi, e una società (o sociosfera) che dia spazio a tali espressività e che ne sia al contempo la fruitrice. Tra le celebrazioni degli scorsi mesi per i 90 anni dalla nascita di Marcello Mastroianni, CG Home Video e Pulp Video hanno optato per l’iniziativa forse più curiosa e interessante di tutte: rieditare in dvd una delle rarissime occasioni felici di Mastroianni fuori dai confini italiani, l’ormai dimenticato Leone l’ultimo (1970) di John Boorman, autore a sua volta in via di essere pericolosamente rimosso dalla memoria collettiva.
Si tratta di un film britannico che a suo tempo portò a Boorman il premio per la migliore regia al Festival di Cannes, e che andò a collocarsi in un solco assai rodato in quegli anni di cinema anti-sistema, in cui numerose figure di Candidi volteriani si susseguivano in vesti messianiche in barba al conformismo borghese. Tutto quel cinema, in buona parte anglosassone ma non solo, che si nutriva in presa diretta degli umori sessantottini e narrava condizionamenti socio-familiari e oppressive leggi di potere in chiavi universalmente allegoriche.
Vengono in mente (in ordine sparso e in un mare di differenti ispirazioni stilistiche) Arthur Penn, John Schlesinger, Mike Nichols, Bob Rafelson, Ken Russell, Lindsay Anderson, e chi più ne ha più ne metta. Mille e uno modi di scardinare lo stesso mezzo-cinema dalle sue collaudate retoriche di spettacolo borghese, per riconsegnarlo a un territorio di provocazione e sperimentazione, ma (si badi bene) restando a loro modo nel solco del grande spettacolo. Cosicché il grande coraggio di tutta una generazione d’autori è preceduto dalla temerarietà di produttori e case di distribuzione, visto che dietro a tali opere quasi sempre troviamo le majors più accreditate, paradossalmente desiderose di dare vita a un nuovo cinema che nei suoi intenti antiborghesi avrebbe volentieri mandato a casa implicitamente le majors stesse e i loro metodi di lavoro fordisti.

Tratto da un testo teatrale di George Tabori, già sceneggiatore per Alfred Hitchcock, Leone l’ultimo racconta il ritorno a casa dell’ultimo discendente di una dinastia monarchica, che ha regnato in un paese immaginario e mai menzionato, dove si è imposta una nuova forma di paese socialista. Il fastoso e decrepito ambiente familiare in cui Leone viene a trovarsi ripone in lui enormi aspettative, investendolo del ruolo di futuro grande restauratore dell’ordine e della monarchia. Dal canto suo, Leone non ha nessuna voglia di assumere tale ruolo, e sulle prime si crogiola in una dimensione pressoché autistica, dove l’unico vero suo interesse pare l’ornitologia di cui è esperto. Poco interessato al sesso e ai piaceri della vita in senso lato, e del tutto alieno alla passione per il potere, Leone si mette a spiare col binocolo le vicende del suo quartiere, popolato per lo più da “black people” proletari e in quotidiano conflitto sociale, animati da un istinto anarchico tutto di pancia. Finché, affascinato dalla vitalità creativa di un mondo finora a lui così sconosciuto, finisce per mettersi a capo di una rivolta contro l’oscurantismo della sua famiglia d’origine, dando sfogo al suo naturale pacifismo umanitario.
In qualche modo, si tratta di una parabola esemplare, il cui braccio narrativo principale è rintracciabile con svariate declinazioni in decine di altri film dell’epoca: una presa di coscienza davanti al mondo, che tuttavia rifugge con decisione i riferimenti diretti a qualsiasi contesto reale e contingente, aderendo al racconto allegorico fuori dal tempo. Le categorie evocate sono universali e atemporali, e in tal senso identificate in figure umane “macro-simboliche”: i fedeli e viscidi servitori del Potere, di modi e fattezze nazistoidi (il tuttofare Laszlo, il medico spirituale, la frustrata e predestinata moglie Margaret), la libertà e l’approccio vitalistico all’esistenza, non privo di uno spontaneo ricorso alla violenza (i “black people”, che ribadiscono esplicitamente le proprie origini africane con evidente scelta di polemica storica), e l’inaspettato condottiero, che della vita conosce poco o nulla e semplicemente sa che la pace e la reciproca solidarietà son il Bene, e l’oppressione è il Male.

Coerentemente John Boorman compie scelte di esplosione e dissacrazione stilistica, a cominciare dalla gestione della colonna audio: un magma incandescente di voci sussurrate che non si legano all’immagine, di parentesi canore che tuttavia non danno mai vita a pagine di musical propriamente detto, di urla, prediche e puro nonsense. Nel racconto dell’ambiente socio-familiare che attornia il protagonista la scelta cade spesso nel grottesco deformante: una su tutte, la fantastica sequenza del ricevimento, in cui lo sguardo di Leone percepisce i suoi invitati come una galleria di mostri, dediti a divorare orribilmente pelli, petti e cosce di pollo, e poi ad accoppiarsi in un contesto di rito orgiastico e mortifero. Lo stesso si può dire per la divertente sequenza degli esercizi spirituali in acqua, condotti da un discutibile medico alternativo, i cui metodi non ottengono altro che di far scoprire definitivamente a Leone le gioie del pacifismo universale.
Altrettanto interessante è il percorso di appropriazione di se stesso e del reale che il protagonista si trova a fare, e che trova coerenti risposte nell’impianto stilistico del film. Per tutta la prima parte Leone conosce il mondo da lontano, da dietro una parete di vetro. Ama il mondo, ma da lontano, e più volte ammette di non provare nulla. Una condizione di inquieta apatia che lo apparenta da vicino al modello archetipico dell’Amleto shakespeariano, vitale e prigioniero, predestinato al ruolo di discendente e recalcitrante ad assumerlo, desideroso di giustizia ma incapace di agire in suo nome.
Sorta di novello James Stewart immobilizzato alla finestra, Leone conosce, ricompone e comprende il mondo attraverso il suo binocolo, sollevando lungo tutto il film significative riflessioni metafilmiche. In pratica, Leone conosce se stesso e il mondo soltanto attraverso l’atto del vedere. Davanti a lui si apre un sipario di secondo livello, che si anima di una vita mai contemplata o sospettata, e che (forzando forse un po’ la lettura del film) a sua volta si trasforma in denuncia del cinema tradizionale come arte borghese. Un cinema che per l’appunto non ha saputo far altro che spiare la realtà con atto voyeuristico e fine a se stesso, senza trovare il coraggio di intervenire attivamente nello scenario umano, senza riuscire mai a mettere via il filtro del binocolo e a scendere in strada.

Come spesso accade, in tali operazioni le parti più riuscite appaiono quelle “negative”, raramente quelle affermative. In tal senso, Leone l’ultimo mostra pagine ai limiti della genialità nella rappresentazione dissacrante e divertita di riti e mostri umani, mentre gli stupori e gli umori da Candido volteriano di Marcello Mastroianni risultano alla lunga ripetitivi, monocordi e un po’ stonati. Ma la scelta del buon Marcello per il ruolo del protagonista è stata anche molto saggia. In un’operazione del genere Mastroianni c’entra infatti poco o niente, sia per la sua storia professionale sia per lo statuto di star internazionale che aveva assunto lungo tutti gli anni Sessanta. Per tutta la durata del film l’attore si muove sul set con una costante aria da “Che cosa ci faccio qui?”, che finisce per aderire intimamente al percorso del protagonista. Marcello Mastroianni non interpreta Leone, ma lo è, in tutto e per tutto. È l’alieno piombato in un mondo che non conosce, che viene tirato per la giacca dove non vorrebbe, e al contrario va dove l’istinto a poco a poco lo conduce. Decontestualizzato, svisato, una macchia imprevista e progressivamente imprevedibile in dinamiche psico-sociali da ultimo stadio. L’inglese stentato che Mastroianni palesa per tutto il film contribuisce a sua volta a tale operazione di sradicamento e ricollocamento. Un nuovo inizio, in cui neppure le lingue codificate hanno più importanza. John Boorman non sceglie il cinema scopertamente militante. Aderisce piuttosto all’allegoria sorridente, di umili ambizioni. Non hai cambiato il mondo, dicono a Leone sul finale. No, ma ho cambiato la nostra strada, risponde lui. Piccoli obiettivi, iniziare dai piccoli scopi, aspirando a utopie universali. È un cinema invecchiato, sì. Che spesso fa pure sorridere per la sua brutale ingenuità idealistica. Ma erano anche anni in cui il cinema viveva una libertà espressiva pressoché totale. Anni in cui si poteva fluttuare in una piscina, sognando e riscoprendo il piacere del sentire.

Info
La scheda di Leone l’ultimo sul sito della CG.
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