Manhunt

Manhunt

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John Woo torna a Venezia (fuori concorso) a sette anni di distanza da La congiura della pietra nera, e chiude di fatto la Mostra con l’esaltante Manhunt, remake dell’omonimo film di Junya Satō che diventa autoironico detour sul cinema hongkonghese e sulla sua storia. Un profluvio di sequenze d’azione, proiettili vaganti, inseguimenti, colpi di scena e con gli immancabili e iconici piccioni in volo…

Come in un vecchio film…

L’avvocato Du Qiu viene incastrato per omicidio in Giappone, dove lavora per conto di una potente casa farmaceutica. Per tentare di riabilitare il proprio nome deve sfuggire alla caccia della polizia e agli attacchi di misteriosi killer. Il detective Yamura sente che questo caso aperto e chiuso cosi velocemente nasconde in realtà qualcosa. Il vero killer è in agguato altrove? Dietro il brutale assassino è celata una cospirazione? [sinossi]

Manhunt prende l’abbrivio in una breve ma significativa sequenza, che al suo interno racchiude l’intero senso del film: l’avvocato Du Qiu, cinese di stanza in Giappone perché tra i suoi clienti ha anche una grande compagnia farmaceutica, si reca in un piccolo ristorantino gestito da due donne, che però gli dicono che per quel giorno hanno chiuso e non è rimasto neanche un goccio di sakè. Anzi, un goccio c’è, e una delle due ristoratrici glielo versa. Il dialogo verte sul cinema, grande amore dell’avvocato e della più graziosa delle due ragazze, ed entrambi dimostrano una malinconia per i “vecchi film”, quelli che oramai non si fanno più. Anzi, l’avvocato Du ha perfino un dvd di un “vecchio film” in macchina, ed esce per recuperarlo e vederlo insieme alle ragazze, proprio mentre fanno l’ingresso degli avventori dai modi un po’ bruschi; mentre l’uomo è fuori dal locale le ragazze mostrano il loro vero volto, quello di due spietate killer. La carneficina è dietro l’angolo, per poi dissolversi nel nulla.
Una sequenza mirabile, che gioca sullo spazio e sulle tensioni e mostra un’ironia sublime che aleggerà poi per tutta l’intera durata del film. La dichiarazione d’intenti di John Woo è perfino troppo dichiarata: si torna all’antico, bisogna ripartire dai vecchi film, dalle loro suggestioni, dagli insegnamenti che nascondono al proprio interno. Di ritorno al Lido di Venezia a sette anni di distanza da La congiura della pietra nera, dove risultava co-regista insieme a Su Chao-pin, John Woo può apparire a uno sguardo un po’ superficiale un regista senile. Anche l’operazione produttiva, che guarda con occhio intenerito ai grandi classici del suo primo periodo hongkonghese, prima della trasferta hollywoodiana, può essere vista con sospetto. Ma si tratterebbe di un errore madornale non percepire la sincerità estrema che trasuda ogni singola inquadratura di Manhunt, presentato fuori concorso alla settantaquattresima edizione della Mostra.

Come già scritto, è tutto in quella prima sequenza: dialoghi brillanti, una certa dose di autoironia, l’improvvisa irruzione dell’azione e della violenza. I personaggi sono lì, raggelati come nei freeze-frame che di quando in quando fanno capolino nella messa in scena: l’eroe Du Qiu, che finirà intrappolato in una situazione che lo vede innocente inseguito dalla polizia e braccato da altri criminali di vario tipo e di varia risma; la killer che si innamora di lui al primo sguardo e la sua “sorella” in affari, più disillusi e assai più bruschi. Verranno poi introdotti via via gli altri ruoli, dall’ispettore di polizia incaricato di indagare sul caso e di arrestare Du Qiu; la sua assistente, quasi al primo giorno di lavoro, una donna che ambisce a una propria personale vendetta, il presidente della casa farmaceutica attorno ai cui affari ruota di fatto tutta la vicenda.
La trama di Manhunt, non priva di complicazioni e di stratificazioni, possiede però una propria linearità basica che permette a Woo di innestarvi sopra una sequela pressoché ininterrotta di sparatorie, inseguimenti a bordo di qualsivoglia mezzo, colpi di scena, colluttazioni e combattimenti corpo a corpo. In un fuoco di fila – è proprio il caso di dirlo – di situazioni ai limiti del paradossale (la sospensione dell’incredulità è ovviamente uno dei requisiti indispensabili per godere fino in fondo della visione), non si alza però solo un omaggio alla Hong Kong dei tempi che furono, e che oramai non saranno mai più per ragioni politiche, sociali ed economiche. Il primo omaggio, e il motivo che ha spinto Woo a gettarsi in una produzione simile – portata a termine con soldi cinesi ma interamente girata a Osaka, in Giappone – è la morte, tre anni fa, di Ken Takakura, nome d’arte di Gōichi Oda, figura di culto del cinema giapponese e internazionale, protagonista nel corso dei decenni tra gli altri di A Fugitive from the Past di Tomu Uchida, Abashiri Prison di Teruo Ishii, Non è più tempo di eroi di Robert Aldrich, Yakuza di Sydney Pollack, The Yellow Handkerchief e A Distant Cry from Spring di Yoji Yamada, Antarctica di Koreyoshi Kurahara e Black Rain di Ridley Scott.

In Cina, e anche questo conta nella formazione di John Woo, il nome di Takakura è diventato di culto per un film in realtà pressoché sconosciuto in Europa e in Italia, Kimi yo Fundo no Kawa o Watare di Junya Satō. Il titolo internazionale di questo thriller secco e puntuto? Manhunt, è ovvio. Il film fu il primo non prodotto in Cina a essere accettato nella terra di Mao al termine della Rivoluzione Culturale, e questo gli permise di venire divorato con gli occhi da tutti gli appassionati di cinema. Riportare in scena l’opera più nota in patria tra quelle interpretate da Takakura, e al tempo stesso organizzare le riprese interamente in Giappone, era forse il modo migliore di portare a termine l’omaggio, anche se va detto che del film di Satō, eccezion fatta per una parte consistente della trama, resta davvero pochissimo. Nulla sotto il profilo estetico, che è completamente dominato dallo sguardo di Woo. A ben vedere non sarebbe neanche così esagerato leggere Manhunt come una sorta di bignami del cinema di Woo: i due antagonisti ammanettati e costretti dunque a combattere insieme riporta alla mente The Killer; anche l’inseguimento sulle moto d’acqua riporta in automatico ai tempi di Face/Off. Per non parlare delle immancabili colombe, che irrompono però in scena svolazzando nel modo più imprevedibile e geniale.
Woo non sta stancamente rimettendo in scena il proprio immaginario. Non ha intenzione di fermare il tempo e ritornare indietro, facendo finta che nulla sia accaduto. Ma di fronte alla morte evidente del cinema di Hong Kong, sferra un colpo micidiale: riporta in vita il cadavere, ne mostra l’assoluta modernità, utilizza gli stilemi per giocare sempre d’anticipo, ritrovarsi nel cuore della bolgia/cinema, senza mai perdere le proprie ossessioni e la propria eleganza. C’è un’ironia palpabile che traspare dalle immagini che trovano corpo sullo schermo, un gioco interno che non si fa mia stucchevole e non tende mai a escludere il pubblico non avvezzo alla materia. Ma c’è. È la memoria del tempo andato. Il controcanto tra action e commedia di un universo che è stato spazzato via dalla storia, e dall’hangover che riportò la città-stato sotto l’egida di Pechino. John Woo firma un piccolo atto di resistenza, come lo splendido White Storm di Benny Chan, come The Midnight After di Fruit Chan, come i film di Pang Ho-cheung. Si stacca dalla Cina fisicamente, unico modo forse per dimostrare ancora l’urgenza di quell’immaginario, ma non cede in realtà alle lusinghe nipponiche. È difficile, e masochista, opporre resistenza al rutilante incedere di un film che accumula momenti climatici l’uno dopo l’altro, senza interruzioni di sorta, senza soluzione di continuità, senza alcuna voglia di rallentare. Si finisce cannibalizzati da un cinema così totale e frastornante, epico e beffardo. Ma è un dolce, dolcissimo morire. Perché è così che si muore, nei vecchi film.

Info
Il trailer di Manhunt.
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