Welles finito non finito – parte seconda

Welles finito non finito – parte seconda

Dai titoli più celebri di Welles a quelli meno visti, perché incompiuti, seguendo il filo indicato dalla retrospettiva che gli ha dedicato Locarno.

Leggi la prima parte di Welles finito non finito

Dopo Chimes at Midnight e dopo The Immortal Story che, tutti rivolti al passato, procedono in parallelo al Chisciotte, Welles con The Deep torna al contemporaneo. Il film, girato sulle coste della Jugoslavia, è finanziato dal regista e da Oja Kodar, per la prima volta interprete in un film del compagno. Welles, ora, è tentato dal successo commerciale, con la speranza di finanziarsi altri progetti e di sorprendere la sempre più sospettosa cricca di cinematografari. Perciò, per la prima volta dai tempi di Touch of Evil, torna al genere.
Non va dimenticato, en passant, che Welles, al di là della vulgata che lo vuole aristocraticamente sprezzante delle reazioni del pubblico, desiderava con forza lo status di regista popolare. Certo, i suoi film sfidano l’intelligenza dello spettatore e forzano le coordinate discorsive del racconto cinematografico, ma non mettono mai in discussione, americanamente, l’essenza narrativa del mezzo. Inoltre, se consideriamo il seguito che il Nostro aveva alla fine degli anni Trenta sia in radio che a teatro, possiamo concludere che la supposta ermeticità del suo cinema sia un’etichetta incollata artatamente dal gretto e, in fin dei conti, provinciale mondo dell’Academy.
Tratto dal romanzo Dead Calm di Charles Williams, The Deep ha un plot abbastanza convenzionale ma, da quanto abbiamo visto a Locarno (parecchio, dato che i reels conservati ammontano a più di 110 minuti!), possiamo dirci soddisfatti per la ricchezza di significati che ancora una volta Welles sa mettere in scena.
Si tratta, anche nel tema scelto, di un film dal discreto potenziale erotico, la cui ambientazione marina permette di far scontrare l’aperto delle acque con il chiuso della sottocoperta (dove si rifugia volentieri il personaggio della Kodar) per un teso andirivieni claustrofobico. Ci pare inoltre evidente che l’ingresso della Kodar nel corpus wellesiano liberi il cineasta verso le zone dell’erotico e del sensuale, territori che gli era stato possibile presagire nella sessualità malsana (e non-detta) di Othello e di Touch of Evil e che raggiungeranno la pienezza espressiva in The Other Side of the Wind.
Inoltre il tema musicale scelto da Welles, che propone innumerevoli variazioni blues, scandisce un andamento ritmato e quasi sornione della suspence, per una rilettura del thrilling che non è parodia (perché il film costruisce una effettiva tensione), ma piuttosto un variare intorno al tema, un ondeggiare verso l’eterno ritorno della suspence; a conti fatti, un gioco esplicito, seppur molto credibile. Tutto questo ci pare venga confermato dall’inseguimento anomalo tra le due barche, anomalo perché, tranne che all’inizio e alla fine, le due imbarcazioni, tanto distanti da non apparire mai insieme, sembrano procedere per proprio conto. La tensione, pur sempre presente, è come negata alla vista, arrivando, con tal passo, ad uno statuto quasi ontologico, in cui la corda tesa alla partenza si lascia volentieri pizzicare di quando in quando per delle note in libertà.
Siamo al cospetto, anche stavolta, di un esperimento: Welles, come di consueto, saggia un testo, una situazione base, una possibilità espressiva, portando ad una espansione continua il proprio cinema (saggiare…vorremmo ricordare che lo scrittore preferito di Welles era Montaigne, “fondatore” del saggio come categoria filosofica).

A partire dal 1970, con The Other Side of the Wind, Welles si dedica alla più scoperta parodia del suo inesauribile percorso cinematografico. Alternando il resoconto dell’ultimo giorno da vivo del regista macho Jake Hannaford (interpretato dal gigantesco John Huston) con le riprese del film di quest’ultimo, il rinnegato di Hollywood mette in scena la parcellizzazione mediatica diventata di uso comune a partire dagli anni Settanta. The Other Side of the Wind porta a compimento il discorso wellesiano sulla società dello spettacolo, presentandosi come un imprescindibile controcanto di Citizen Kane.
Il film, seppure nella condizione frammentaria in cui versa, si segnala, probabilmente, come l’ultima riflessione estetica sull’esplosione visiva contemporanea, prima che le cose degenerassero in via definitiva. Infatti, nel volgere di pochi anni si arriverà alla perdizione dell’immagine, all’immagine-spazzatura, ad una società della visione standardizzata, in cui il linguaggio cinematografico non è più un dato acquisito, ma una perla da riscoprire, con grande fatica, ogni volta.
Al contrario, qui Welles prende i più diversi formati (e quindi il “trash” di una ripresa rubata e fuori fuoco) per costruire un mirabile caleidoscopio visivo, che, supportato dalla “scoperta” del teleobiettivo, decanta il suo amore per il montaggio (leggenda vuole che montasse il film su dodici moviole in contemporanea).
In The Other Side of the Wind si costruisce, allora, una tensione dello sguardo, in cui gli incessanti cambiamenti del punto di vista segnalano, non una incapacità nello scegliere la giusta angolazione e, dunque, una resa al relativismo del punto di vista, ma una formidabile sfida alle possibilità della visione e al cinema come mezzo di racconto per immagini.
Il film, in più, oltre a rappresentare l’apoteosi della ricerca wellesiana sull’immagine e sul ritmo visivo, è il canto funebre della Hollywood classica, dei “giganti” che stanno per essere sostituiti da una serie di “piccoli allievi”, tanto adoranti quanto detestabili. E Huston-Hannaford, uno dei “giganti” in declino, che con il fare macho nasconde la sua omosessualità, sta girando un film esplicitamente erotico: un lunghissimo e mai visto inseguimento sensuale tra una ragazza e un ragazzo. Il film nel film segna, allora, come già accennato, il punto culminante dell’erotismo wellesiano e forse la maturazione della beltà visiva del suo cinema, ma, allo stesso tempo, per essere inserito in una diegesi dissacrante, conferma lo spirito autoironico di Welles e punta, con arguzia, il dito verso l’alone di malsano decadentismo che attraversa l’industria del cinema.

Proprio a partire dal 1970 comincia la fase conclusiva della carriera wellesiana, quella dell’uomo-macchina-da-presa, dell’uomo-cinema, i cui rari collaboratori fanno parte stabilmente del suo percorso di vita: da un lato Oja Kodar e dall’altro Gary Graver; senza di loro quella forma privata di cinema sarebbe stata monca.
Graver a Locarno ha raccontato dell’incontro, fortemente voluto, con Welles. Con il suo definitivo direttore della fotografia, sembra essersi replicato per il cineasta americano un evento che ne aveva segnato l’ingresso nel cinema. Nel 1940 Gregg Toland, all’epoca il migliore dei cinematographer hollywoodiani, telefonò al Nostro esordiente enfant prodige perché voleva lavorare con lui; nel 1970 Graver, sconosciuto ai più e giovanissimo, telefona al genio obeso e già vecchio, rinnegato da Hollywood e ignorato dai colleghi, perché vuole riprendere il suo cinema. Welles, quindi, a distanza di trent’anni, sa ancora attrarre, sa ancora far innamorare di sé.
E il suo ultimo cinema è il cinema della vecchiaia e dell’amore, dell’autobiografia e del piacere giornaliero del fare. È anche il compimento delle suggestioni più disparate.
I lavori di Welles che vanno dal 1970 al 1985, pur accusati tutt’oggi da parte della critica di essere un interminabile, e palesemente autoriflessivo, gioco di specchi, visti qui a Locarno nella loro filiforme rivelazione, si dimostrano piuttosto come il punto d’approdo delle ossessioni più durature.
Non altrimenti vanno intesi sia il Moby Dick, un one man che vede Welles in tutti i ruoli, sia The Merchant of Venice, il suo primo film shakespeariano a colori, cui Welles dona una fotografia “gelida” e “calda” insieme, per congiungere significativamente il mondo del Bardo con il “fiabesco” della scrittrice Karen Blixen. Quest’ultima, a partire da The Immortal Story, tratto da un suo racconto, diviene un costante riferimento per Welles; l’altro incompiuto, The Dreamers (1980-1982), è anch’esso tratto da un testo della scrittrice.
Ciò che importa dire ora è che Welles, attraverso tale suggestione letteraria, precisa visivamente il suo retroterra shakespeariano: The Merchant of Venice, The Immortal Story e The Dreamers, un po’ compiuti e un po’ no, entrano quasi a far parte di un unico macrotesto, accomunati da un identico lavoro sulla “magia” del colore e da uno scontro espressivo-discorsivo tra i toni caldi della fotografia e la “freddezza” del mondo ripreso e dei personaggi interpretati da Welles (Macao e Venezia ugualmente “disadorne”; Clay e Shylock personaggi de-privati della condizione umana e, non a caso, pesantemente truccati, come delle lugubri maschere carnevalesche).
In questi anni perciò Welles incrementa, se possibile, le sperimentazioni. Abbiamo detto del discorso “pubblico” di The Other Side of the Wind e del discorso mortifero e “colorato” intorno a Shakespeare e alla Blixen. Naturalmente non finisce qua, e non è un caso che ci sia sempre di mezzo Shakespeare, che viene ri-pensato come tramite per la meditazione sulla vecchiaia, “buona”, “ingenua” e perdente per natura.
Il tema prende il via con Chimes at Midnight e avrebbe dovuto avere una conclusione con King Lear (mai iniziato purtroppo), ma ha conosciuto diversi passaggi intermedi in cui spicca Orson Welles solo, forse l’ultimo incompiuto del Nostro.
Qui Welles intendeva ripercorrere la sua carriera attraverso diverse interviste con le persone a lui più vicine. Ne è testimonianza il lungo frammento Orson Welles Talks with Roger Hill, conversazione con il suo insegnante alla Todd School. Con Roger Hill, che fu il suo amico migliore, Welles parla dei vecchi tempi della sua formazione, della sua scoperta del teatro e di Shakespeare, quindi passa a parlare di vecchiaia e, dunque, di morte.
Il “filone”, che parte con il personaggio di Falstaff, si segnala come il cinema scopertamente senile di Welles, perché testimonia più che altrove la sua profonda riflessione sulla morte e sulla libertà della vecchiaia, in quanto territorio limite.
Ma l’ultimo cinema di Welles è ancora molto altro.
Si veda il Moby Dick: qui Welles fa cinema con la sola forza della sua persona, ripresa semplicemente in mezza figura. Nel progetto melvilliano allora possiamo riconoscere altre due tendenze del cinema definitivo di Welles: il frammento breve che aumenta a dismisura l’arcipelago wellesiano e lo stadio conclusivo di un’ossessione su un testo durata almeno quarant’anni.
Dunque, nella terza fase cinematografica della sua carriera, Welles da un lato prova a definire delle ossessioni che aveva già esaminato in diversi campi (teatro, radio, TV) e dall’altro moltiplica i progetti dalla natura più diversa; cosicché va riconsiderata l’uscita nel 1973 del film-saggio F for Fake.
Oltre a quanto si è già detto e scritto, l’ultimo lavoro cinematografico compiuto da Welles è anche un riepilogo temporaneo di quegli anni. Non si tratta infatti di un film-testamento, come se, giunto alla conclusione di un percorso, il “mago del cinema” sentisse il bisogno di dire l’ultima parola sul falso e dunque sulla sua carriera trentennale. È vero, si tratta del suo capitolo più esplicito sul tema, ma vi erano un’infinità di altri capitoli che stava portando avanti, capitoli di tutt’altra natura e dalle tematiche completamente diverse. Perciò la varietà dei materiali raccolti nel film è solo una parte dello sterminato arcipelago che Welles aveva a disposizione e da cui, se avesse avuto la necessaria disponibilità economica, avrebbe potuto estrarre altri compiuti, senza grosse difficoltà.
È davvero difficile trovare nella storia del cinema qualcosa del genere: un incredibile esperimento di found footage a partire da se stesso, dal proprio corpo.

A chiudere la nostra rassegna sull’incompiuto, vorremmo spendere alcune parole per The Magic Show, che non siamo riusciti ad inserire nei discorsi precedenti, a dimostrazione del continuo superarsi di Welles, sempre all’opera, sempre pronto a trovare terreni d’ispirazione mai esplorati prima e costringendoci, dunque, ad inseguimenti a perdifiato e a improbabili tentativi di schematizzazione.
In The Magic Show Welles interpreta il ruolo di un mago, ma non con gli intenti falsificatori e metalinguistici di F for Fake; qui siamo al cospetto di un mago vecchietto e smemorato che si è fatto prendere la mano da alcuni incantesimi e ha dimenticato di rimetterli al loro posto e vaga, dunque, nel suo teatro che è in tutto simile ad un magazzino abbandonato. Gli fanno da contraltare comico alcuni poliziotti, chiamati a trovare una donna scomparsa in seguito ad una prestidigitazione malriuscita; questi saranno travolti dai grotteschi misteri del teatro.
Il film dà la possibilità a Welles di esibirsi in divertenti e sorprendenti pezzi di magia, ma, soprattutto, tra cops e prestidigitazioni naïf, gli permette un commovente omaggio al cinema delle origini, a quella magia perduta del piano fisso in totale alla Méliès o a quella fisicità sennettiana, prima, e keatoniana e chapliniana, poi.
I curatori della retrospettiva, per aver scelto di chiudere con il workshop dedicato a The Magic Show, si meritano un plauso ulteriore, in quanto ci hanno permesso di congedarci dal Nostro con un toccante ritorno alle origini del cinema, un Welles da camera oscura.

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