Princess Raccoon
di Seijun Suzuki
Superati gli ottant’anni, Seijun Suzuki dona un’ennesima dimostrazione di libertà formale, mettendo in scena un’operetta immaginifica e fuori da qualsiasi canone. Princess Raccoon, a Cannes 2005 e poi al Torino Film Festival.
Tanuki in Love
Amechiyo è braccato da suo padre per la sua bellezza e mentre tenta la via della fuga si imbatte nella Princess Raccoon del titolo, un tanuki in forma umana. Si innamorano l’uno dell’altra, ma esseri umani e tanuki non possono mescolarsi, e così la corte dei tanuki entra in subbuglio. La principessa salva la vita dell’amato, quindi tocca a lui salvarla mettendosi alla cerca della Rana del Paradiso sulla Montagna Sacra… [sinossi]
Ha ottantadue anni suonati, Seijun Suzuki, e fa dunque parte del club esclusivo che annovera al suo interno i grandi vecchi ancora in attività, in una squadra capitanata idealmente dal quasi centenario Manoel de Oliveira (tra gli altri più o meno arzilli nonnetti sono da citare quantomeno Robert Altman, Eric Rohmer, Michelangelo Antonioni, Arthur Penn). Eppure, in una pur così nobile compagnia, il suo estro rifulge di una luce particolare, qualcosa che va ben oltre la mera riuscita dell’opera; è la messa in pratica di un genio, categoria che mette fuori il capino molto meno frequentemente di quanto siamo abituati a credere.
Raggiunta la maturità Suzuki si permette molto più di quanto sia solitamente concesso a un regista, facendosi bellamente beffe della prassi, aggirando la logica più ferrea e corriva, prendendosi qualsiasi libertà; è veramente arduo trovare nella contemporaneità un cineasta così palesemente noncurante del mondo che gravita intorno al cinema lambendone i confini. E non si scambi questo comportamento per un desiderio insano di elitarismo o per mancanza di rispetto nei confronti del pubblico (per quanto sia indubbio che le sue opere difficilmente possano trovare facile sbocco sul mercato): la realtà è che se proprio dovessimo trovare un degno erede di Suzuki nel cinema di oggi l’unico in grado di vestirne i panni senza fare la fine dell’imperatore nudo a cospetto dei sudditi sarebbe Takashi Miike. Entrambi giapponesi, dunque, e non è certo un caso, ed entrambi iper-produttivi: Miike sta girando proprio in questi giorni il suo sessantasettesimo film, mentre Suzuki con Operetta Tanukigoten (questo il titolo originale, tradotto per la vendita internazionale nell’inglese Princess Raccoon) è arrivato a quota cinquantasei. E questo dettaglio porta a introdurre la riflessione sulla carriera del regista nativo di Tokyo, spaccata propriamente in due tronconi: di questi cinquantasei film infatti ben quarantaquattro Suzuki li girò in appena tredici anni, quando era al soldo della Nikkatsu e si era ritagliato un ruolo non indifferente grazie a una serie di Yakuza Eiga dal ritmo indiavolato e dai toni perennemente semiseri – è stato possibile reperirne alcuni nella retrospettiva sul cinema segreto giapponese ospitata dal Festival di Venezia 2005. Quando il suo cinema iniziò a virare su territori meno battuti, pur continuando a essere incentrato sul genere, e vennero alla luce i vari Tokyo Drifters, Elegia della lotta e Storia di una prostituta, la Nikkatsu storse il naso. Fino a licenziare in tronco il regista a ridosso dello straordinario La farfalla sul mirino. Ed è qui che avvenne lo strappo cui si accennava in precedenza, la spaccatura che segna in profondità la peculiarità autoriale di Suzuki: negli ultimi trentacinque anni Suzuki ha diretto solo dodici film, di cui due per la televisione.
Anche lo stile ha subito una mutazione decisa; il ragionamento sul genere si è fatto meno diretto, teso alla destrutturazione, allo smantellamento della macchina-cinema. Una tensione autoriale che si è fatta via via sempre più necessaria ed estrema: a partire da Zigeunerweisen Seijun Suzuki ha intrapreso un viaggio in totale immersione nel cinema, un viaggio iconoclasta e a suo modo barbarico, che trascina lo spettatore in un guazzabuglio di ipotesi visive, scioccandolo. Perché rimanere neutri davanti alle opere di Suzuki è impossibile: un cinema che pretende scomodità, in cui lo spettatore deve trovare la postura più adatta senza avere la possibilità di affidarsi alle regole prestabilite dalla norma.
Sembrava aver raggiunto lo zenith di questo percorso nel 2001 con Pistol Opera, dove l’intero senso del “nuovo” sguardo del cineasta era reso con ancora più forza dall’idea di ragionare sul proprio cinema (nello specifico il già citato La farfalla sul mirino), ma con Princess Raccoon, presentato a Cannes e ripescato nel calderone dei Fuori Concorso di Torino 2005 – dove divideva lo spazio anche con il Koji Wakamatsu di Cycle Chronicles – la dose è stata rincarata.
Che si tratti di un’opera profondamente suzukiana appare palese fin dalla scelta dello script, ad opera di Yoshio Urasawa, già collaboratore del cineasta in occasione di Lupin III: the Golden Legend of Babylon. Per rendere più chiaro di chi stiamo parlando sarà il caso di far notare come Urasawa abbia lavorato in seguito sia per la serie televisiva Ranma ½ che per la più recente (ma altrettanto folle, basta vedere il titolo) Bobobo-bo Bo-bobo; e questo curriculum torna a far valere prepotentemente la sua forza spesso durante Princess Raccoon, a partire dai surreali balletti dei bambini con la coda da procioni. E sì, perché i Tanuki citati nel titolo originale altro non sono che spiriti delle leggende e dei miti giapponesi dalla caratteristica forma di procioni – protagonisti dello splendido film di Isao Takahata Heisei tanuki gassen pompoko, oltre che di un’altra trentina di titoli. Il riferimento di Suzuki si fa dunque ancestrale, e va a scavare in profondità nell’identità culturale nipponica. Ma, così come ha fatto (guarda caso) Miike nel suo ultimo Yokai Daisenso presentato alla Mostra di Venezia 2005, Suzuki approfitta della solidità del mito popolare per estrapolarlo dal suo contesto di provenienza e ibridarlo con necessità, estetiche ed etiche, maggiormente legate alla contemporaneità. Non a caso il contrasto è evidente fin dal titolo giapponese dove la mitopoiesi nipponica (i tanuki) corre di pari passo con una creazione artistica occidentale quale l’operetta. Perché non è il teatro storico giapponese il punto di partenza di questo musical – di tale genere si tratta, se non fosse stato ancora chiaro -, come poteva essere ad esempio per il Kurosawa de Il trono di sangue o il Kitano di Dolls, ma bensì il musical occidentale, l’operetta, il vaudeville, addirittura la musica leggera. Tutto questo passando per una serie di divertissement degni di manga e anime: la storia d’amore travagliata tra il principe Amechiyo e la principessa dei Tanuki è infatti il pretesto scelto da Suzuki per mettere in scena un universo avant-pop molto simile a quello che faceva da cornice a Pistol Opera.
I personaggi si muovono sul set costruito da Takeo Kimura – fedele compagno di viaggio di Suzuki da più di quarant’anni, è in sé e per sé la storia stessa del cinema giapponese, avendo lavorato anche con Daisuke Ito, Toshio Masuda, Teruo Ishii, Kei Kumai e Yoichi Sai – tra scenografie fantasiose ed estremamente artefatte, capaci di passare dal minimalismo della spiaggia in cui la principessa affronta Azuchimomoyama, il perfido padre di Amechiyo geloso della bellezza del pargolo (e qui il riferimento alla fabula per antonomasia si fa sempre più consapevole), fino allo splendore a pochi passi dal barocco della reggia di Azuchimomoyama. Per giungere infine alla sequenza che meglio forse riesce a sintetizzare l’operazione portata avanti da Suzuki e dal suo staff (una menzione particolare meriterebbe il maturo direttore della fotografia Yonezo Maeda, già al lavoro nello splendido Sweet Revenge di Katsumi Nishikawa e nel bel Last Scene di Hideo Nakata, e che qui regala uno studio sulle sfumature tutt’altro che banale e di un’eleganza visiva notevole): costretto ad affrontare le prove della Sacra Montagna Amechiyo vi si inerpica, arrancando su un terreno ostile che riserva a fasi alterne caldo torrenziale e freddo glaciale. La lunga sequenza è risolta da Suzuki con un’unica inquadratura, affidando tutto all’uso sapiente dell’illuminazione e alle scenografie – un blocco dietro il quale passa il protagonista e che funge da ideale spartiacque tra i diversi climi -, in una dimostrazione di semplicità e al contempo di assoluta rottura nei confronti della classicità che farebbe impallidire chiunque. Semplicità ed eversione, ecco i tratti peculiari dell’ultima stagione artistica di questo mostro sacro della cinematografia mondiale: era già stato così in Pistol Opera, ma a ben vedere il suo stile registico a partire da Tale of Sorrow and Sadness del 1977 è teso in questa direzione. Se nel 2001 si pensava che Pistol Opera fosse il punto più estremo in cui potesse spingersi Suzuki, oggi si è costretti per l’ennesima volta a ridisegnare le mappe; perché, a giudicare da Princess Raccoon Suzuki si sta divertendo sempre di più. E nulla vieta di immaginarlo, provvisto di apposita coda, ballare in mezzo ai tanuki in festa.
Info
Il trailer di Princess Raccoon.
- Genere: avventura, fantasy, musical
- Titolo originale: Operetta tanukigoten
- Paese/Anno: Giappone | 2005
- Regia: Seijun Suzuki
- Sceneggiatura: Yoshio Urasawa
- Fotografia: Yonezo Maeda
- Interpreti: Hibari Misoara, Hiroko Yakushimaru, Joe Odagiri, Mikijirō Hira, Saori Yuki, Zhang Ziyi
- Colonna sonora: Michiru Ôshima, Ryōmei Shirai
- Produzione: Dentsu, Eisei Gekijo, Kadokawa Eiga, Ogura Jimusho, Shochiku
- Durata: 111'