Desert Dream

Desert Dream

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Con Desert Dream il regista cinese Zhang Lu, qui alla terza regia di un lungometraggio, vorrebbe collocarsi tra gli autori di Pechino e dintorni in grado di analizzare le distonie di un mondo modernissimo e antichissimo a un tempo, ma calibra in modo completamente sbagliato lo sguardo.

Scena di famiglia in uno Yurt (con panoramica)

Un piccolo villaggio al ridosso del confine tra Cina e Mongolia viene progressivamente abbandonato dai suoi abitanti in seguito all’avanzata del deserto, che rosicchia anno dopo anno spazio alla tradizionale steppa mongola. Solo un uomo, intenzionato a piantare alberi per fronteggiare questa situazione, rimane a vivere nel suo Yurt. Un giorno riceve la visita di una donna nordcoreana e di suo figlio: i due si fermano a vivere insieme all’uomo, pur non avendo alcuna base di comunicazione verbale. [sinossi]

Tra i tanti difetti che accompagnano fedelmente la terza sortita sulla lunga distanza del regista cinese Zhang Lu ce n’è uno che ci ha particolarmente maldisposti durante la visione: la sua mancanza di sincerità. Hyazgar (il titolo scelto per la vendita internazionale è Desert Dream) è un film profondamente falso fin dalla sua struttura primigenia: durante le due ore e passa che ne segnano il percorso, non c’è praticamente nulla che sembri possedere un respiro sincero e autentico.
Zhang Lu non è certo un regista nuovo all’analisi dei rapporti tra persone “straniere” fra loro: già il precedente Grain in Ear cercava di cristallizzare l’interrelazione (im)possibile tra il popolo cinese e quello coreano. Nel caso di Desert Dream la situazione si fa ancora più ingarbugliata: non solo il cineasta torna a ragionare sul linguaggio universale – stavolta si tratta della salvaguardia dell’habitat naturale – che può (deve) fungere da collante culturale, ma ci troviamo di fronte a una doppia rete di relazioni. Da una parte abbiamo il rapporto di Hangai con la vedova coreana e il bambino, e dall’altro quello dello stesso mongolo con la società dalla quale è per scelta (in)consapevole esule. La descrizione della difficile e silenziosa vita nel deserto è dunque l’occasione per Zhang di gettarsi a corpo morto in una sequela pressoché ininterrotta di immagini poetiche; il deserto si trasforma in un set fotografico da rivista patinata, con un abuso di tramonti, albe, controluci, che finisce ben presto per stancare. Il perché è presto detto: siamo di fronte a immagini del tutto slegate dal contesto narrativo, avulse a qualsiasi senso che vada oltre la mera (e in fin dei conti volgare, perché profondamente artefatta) ricerca estetica. In più di un’occasione si ha l’impressione netta che Zhang si stia semplicemente divertendo a giocare con il suo pubblico, sottovalutandolo e allo stesso tempo sovrastimando le proprie cifre autoriali fino al parossismo.

A carte scoperte, infatti, Desert Dream si palesa come film anche estremamente rozzo e dozzinale: per esemplificare questo concetto basterà prendere a paradigma le innumerevoli panoramiche che rappresentano, di fatto, la vera e propria cifra stilistica dell’opera. Quasi ogni sequenza è risolta da Zhang nella seguente maniera: la macchina da presa a mano staziona per qualche secondo (di troppo) sul personaggio al centro della scena per poi cercare di svelare il fuori campo con una panoramica traballante e indecisa. Sinceramente ignoriamo i retroscena di una scelta così apertamente “sdrucita” e facilona, ma ci è impossibile non rimarcare la povertà narrativa che ne consegue. Desert Dream procede così per blocchi a loro modo quasi didattici (la moglie di Hangai che lo abbandona al suo destino per portare al sicuro la figlioletta malata, l’incontro tra l’uomo e i due coreani, la trasmissione della propria cultura al bambino attraverso esempi pratici, il tentativo di avere un rapporto con la donna e via discorrendo) che pretenderebbero di elevarsi al grado di metafora di uno stare al mondo nomade e al di fuori di qualsiasi contesto civile, ma che finiscono ben presto per incepparsi, mostrando la meccanicità della loro essenza e soprattutto la povertà dello sguardo del regista. Zhang mostra il deserto in ogni sua forma – casa, tomba, alcova – ma non riesce mai a fare il necessario passo ulteriore che gli permetterebbe di arrivare a un’analisi del contesto sociale e politico. Resta dunque una fotografia insoddisfacente e priva di anima, dove anche alcune buone intuizioni (il continuo passaggio di carri armati al di sopra della duna) si inaridiscono, perdendo in senso e contenuto. Ma di una cosa bisogna essere grati a Zhang: grazie a un solo film ha praticamente redatto un bignami di tutto ciò che non bisogna fare quando si deve girare un film sull’incomunicabilità e sullo spazio vuoto, inabitato. Che dire, a volte anche l’incapacità può essere una virtù.

Info
Desert Dream sul sito della Berlinale.

  • desert-dream-2007-zhang-lu-01.jpg

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