Intervista a Erik Gandini
In attesa di vedere il suo ultimo attesissimo lavoro Videocracy, selezionato alla Settimana della Critica di Venezia 2009, ripubblichiamo un’intervista con Erik Gandini, documentarista italo-svedese che ha definitivamente abbandonato il Bel Paese per abbracciare quello scandinavo dove le condizioni e le possibilità di lavoro sono decisamente superiori alle nostre. La conversazione si è svolta a Roma nel luglio del 2005, durante i lavori del 4° RomaDocFest.
Iniziamo questa nostra chiacchierata parlando del tuo ultimo lavoro. So che hai appena finito di montare Gitmo, un documentario su Guantanamo.
Erik Gandini: Sì. È un’inchiesta, molto sullo stile di Sacrificio (il primo documentario di Gandini, nel quale si occupava di fare luce sull’uccisione di Ernesto “Che” Guevara [N.d.R.]), è un’investigazione di questo luogo che, ufficialmente, non esiste e di cui nessuno conosce veramente quello che vi succede: è solo un nome che sta sulla bocca di tutti. La storia è iniziata così: in Svezia c’era un ragazzo di origine algerina, 22 anni, che all’improvviso si è venuto a sapere che era prigioniero a Guantanamo. Già all’epoca Guantanamo aveva creato tutta una serie di discordie tra i gli USA e gli altri leader mondiali che non capivano quali leggi seguisse l’America in questa sua guerra al terrorismo. Il padre di questo ragazzo ha avuto la brillante idea di rinchiudersi in una gabbia di ferro, nella piazza principale di Stoccolma, vestito con una tuta arancione per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso di Guantanamo. Noi abbiamo conosciuto questo signore e ci siamo messi subito a lavoro per saperne di più su questa fantomatica prigione. Sapevamo che c’era la possibilità di visitare il campo di Guantanamo e cosi abbiamo telefonato all’esercito statunitense: è stato facilissimo, sembrava di parlare con un’agenzia di viaggi! Il viaggio è gratuito e ti portano da Porto Rico a Guantanamo e ti fanno fare una visita di tre giorni nel campo: questo fa parte del concetto di public relations della grande democrazia americana. Ovviamente la cosa è studiata, perché hanno capito che se volevano sopravvivere a questo sopruso dovevano far finta che fosse tutto normale. Tu vai lì e per tre giorni ti portano in giro, ti dicono e ti danno tutto quello che possono: puoi addirittura giocare a golf, fare scuba diving e ti portano a fare il safari delle iguane, tra l’altro assolutamente bizzarre, cercando di darti l’impressione che sia tutto così normale. Da lì poi è iniziata un’investigazione che non ti spiego perché è complicatissima: comunque ci sono storie di generali nel mondo dell’esercito americano, un esercito spaccato dal caso di Guantanamo perché i militari stessi sono i primi a godere della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Purtroppo ormai Guantanamo è un mito nel mondo islamico.
Proprio in questi giorni è uscita l’ultima notizia a riguardo. Si è venuto a sapere che durante gli interrogatori il Corano viene gettato nei water.
Erik Gandini: Esatto. Percui Guantanamo è ormai divenuto, nell’immaginario islamico, una sorta di inferno in terra. E quando, infatti, in Iraq vengono mostrati i video degli ostaggi di Al Qaeda questi indossano quella tuta arancione tristemente famosa. Infatti c’è chi in America vuole chiudere Guantanamo perché controproducente. Comunque, la questione che noi volevano capire è che cosa succede veramente all’interno di Guantanamo: perché girano un sacco di voci di violenze, torture varie.
Il concetto di Guantanamo, e il perché gli USA hanno deciso di violare la convenzione di Ginevra, è il fatto che la prigione statunitense è un centro di interrogatori. Se applicano la convenzione di Ginevra i prigionieri sono obbligati a rispondere solo a quattro domande: nome, grado, nazionalità e numero di identità nell’esercito. Lo scopo di Guantanamo è invece quello di spremere i prigionieri per evitare futuri attacchi all’America. Per cui il Presidente Bush ha deciso di inventare questa nuova categoria, illegal combatters, che non esiste in nessun altro paese.
Anche perché la concezione che gli Stati Uniti hanno del terrorismo, questo terrorismo globale, non ha un’identità nazionale e quindi è una guerra anticonvenzionale.
Erik Gandini: Esatto, per cui le vecchie regole non esistono più. Noi abbiamo intervistato due ex-prigionieri del campo: il ragazzo svedese che ti dicevo prima, che è stato due anni e mezzo a Guantanamo, e un inglese. Loro stessi ci hanno detto, invece, come abbiano deciso di applicare su loro stessi la convenzione di Ginevra: decidono dentro il carcere americano di non collaborare. Questa cosa, ovviamente, li ha condannati ancor di più: io sono stato a Guantanamo e solo l’idea di essere chiuso in una gabbia senza sapere quando si potrà uscire mi fa stare male. Un detenuto comune può, giorno per giorno e ora per ora, contare quanto tempo manca alla propria liberazione: tu immagina il livello kafkiano di Guantanamo, con un prigioniero che non sa quando potrà uscire!
Cos’altro vi hanno detto questi due ex-detenuti di Guantanamo? Soprattutto riguardo agli interrogatori.
Erik Gandini: Loro ci hanno raccontato esattamente quale sia la metodologia di questi interrogatori, che poi è la questione più scottante riguardo Guantanamo. Soprattutto dopo la scoperta dei maltrattamenti ai prigionieri iracheni nella prigione di Abu Ghraib dove, tra l’altro, essendo una guerra convenzionale, vige la Convenzione di Ginevra. C’è tutta una lista di metodi di interrogatori, che va dalle posizioni di stress all’uso delle fobie del soggetto. Per cui usano i cani, per esempio, sui musulmani, sapendo che per loro sono un simbolo del male. Il sesso è un’altra tecnica molto praticata. C’è una famosa interrogatrice dell’esercito americano che fa finta di toccarsi e di tirar fuori il sangue mestruale per poi spalmarlo in faccia al prigioniero, considerando anche che durante il Ramadan per i musulmani è vietato il contatto con le donne. Questa escalation è frutto di un bisogno di informazioni, di intelligence.
Dove uscirà questo documentario?
Erik Gandini: A settembre andrà in sala in Svezia e poi lo manderemo in tutti i festival possibili. Comunque noi abbiamo approfondito l’aspetto di questa dissidenza interna all’esercito statunitense, con molti generali che sono stati ghettizzati e marginalizzati a causa del loro disaccordo riguardo l’affaire Guantanamo e che hanno molta paura di raccontare la propria storia.
Da chi è stato prodotto?
Erik Gandini: Dalla Zentropa, la casa di produzione di Lars Von Trier, e altre produzioni scandinave.
A proposito di Scandinavia. So che Surplus è stato mandato in onda in prima serata sulla televisione pubblica svedese: sembra proprio così diversa la situazione tra la Svezia e l’Italia.
Erik Gandini: Nel 1986, quando mi sono trasferito in Svezia, la situazione era diversissima: la televisione svedese era composta solo da due canali, senza pubblicità. Per me era una sorta di ritiro spirituale, era come andare alle terme! Anche noiosa, perché era senza concorrenza: nel 1990 è partita la televisione commerciale e quindi sono fiorite docu-soap e altro ancora (paradossalmente molti dei format che stanno spopolando nel mondo sono stati creati in Svezia). In Svezia c’è un’esperienza del reale molto forte che ha reso fattibile il successo di questi altri generi.
Non pensi che anche da noi, in Italia, ci sia una forte e cosciente esperienza del reale?
Erik Gandini: Certo che c’è. Il Neorealismo è visto con nostalgia, ed è un peccato perché dovrebbe essere presente tale e quale come era nel dopoguerra. In Svezia il documentario viene mandato in prima serata, viene recensito sui giornali e i documentaristi svedesi vengono visti come degli artisti importanti: non è, come succede ogni tanto, che un regista importante di fiction decide un giorno di fare un documentario. Lì il documentario ha una sua autorevolezza e indipendenza. Per cui ci sono più soldi e più spazi e non rischi di finire dimenticato in una proiezione alla quattro di notte.
In Italia, dopo il grande successo di Michael Moore, qualcosa si sta muovendo. I documentari escono nelle sale, anche se quelli italiani sono rarissimi.
Erik Gandini: Secondo me l’Italia ha un potenziale enorme per il documentario, per due motivi: primo perché la televisione italiana è talmente superficiale che appena metti nella tua opera del buon contenuto hai successo, anche perché il pubblico lo richiede. Così come l’industria del fast-food ha creato le condizioni per lo slow-food, o come Bush ha creato una carriera a Michael Moore, così in Italia potrebbe accadere questo: con una fioritura di documentari dal grande impatto sociale.
Soprattutto in una congiuntura socio-politico-culturale come l’attuale, così delicata…
Erik Gandini: Il problema grosso in Svezia, e questo è il secondo motivo per cui l’Italia può produrre ottimi documentari, è la mancanza di soggetti: la Svezia è un paese noioso, dove la gente non sa raccontare e le poche cose che succedono vengono talmente amplificate dai media che non ne puoi più. L’Italia da questo punto di vista è una miniera d’oro, secondo me.
Il fatto è che mancano sia le infrastrutture produttive che quelle distributive per fare questo. Poi la televisione pubblica è sempre legata al carrozzone politico di turno, per cui è difficile elaborare delle scelte editoriali ad ampio raggio.
Erik Gandini: La possibilità in Italia è che si crei un circuito alternativo.
Piano piano qualcosa sta nascendo. C’è l’Associazione Documè che si occupa proprio di questo.
Erik Gandini: Loro, infatti, distribuiscono i miei film in Italia. Il tipo di distribuzione che fa Documé è più di qualità, con le proiezioni in sala: in Svezia questo non c’è, perché i documentari vanno sempre in televisione. Ed è inutile dire che lo “spettacolo” risulta assai diverso, perché in TV l’esperienza è meno intensa.
Volevo farti una domanda su un argomento che abbiamo toccato varie volte all’interno di questa chiacchierata: cosa ne pensi di Michael Moore e come giudichi il suo modo di fare documentario?
Erik Gandini: I suoi documentari mi piacciono, anche se sono fatti dichiaratamente per il pubblico americano, il che è giusto perché è l’America il problema, non siamo noi. Penso che sia fantastico il fatto che sia riuscito a far riconoscere il documentario a un pubblico di massa e a vincere dei premi a Cannes. Moore ha aiutato a far emergere il documentario dalla situazione di oscurità in cui versava prima e questo va benissimo e, quindi, non mi crea nessun problema il fatto che sia divenuto una celebrità, anche perché la forza del suo documentario sono le sue idee e la sua presenza. Come in Super Size Me dove il regista ha deciso di provare sulla sua pelle quelle esperienze: questo è il bello del documentario, che puoi dare la possibilità ad un soggetto unico di esprimersi. Detto ciò i suoi film non costituiscono il mio modello di documentario, anche perché dal punto di vista cinematografico sono abbastanza semplici.
Sì, si vede che proviene dalla televisione, anche nei tempi del montaggio e nella narrazione in voce off.
Erik Gandini: Giustissimo… ma qui in Italia viene doppiato Moore?
Ovviamente, in Italia si doppia tutto! È un altro problema di questo paese.
Erik Gandini: È un grande problema! A parte il fatto che comporta una conoscenza minore delle altre lingue, soprattutto l’inglese. In Svezia la gente è talmente abituata a vedere i film in lingua originale che l’inglese lo sanno tutti.
Ed è proprio per questo che Italia e Spagna, che sono i paesi che doppiano tutto, sono i paesi che meno parlano inglese.
Erik Gandini: Ma, a parte questo, c’è una questione proprio di realismo che scompare. Ti faccio un esempio: io quando sono arrivato in Svezia per la prima volta in vita mia ho sentito la voce di Arafat. Sarebbe interessante ascoltare un discorso di Bin Laden in originale, chi lo avrà mai sentito? Così, solo per sentire cosa pensa.
Soprattutto la televisione ha un effetto deformante verso la realtà, penso in particolare alla grande falsificazione quotidiana rispetto alla componente uditiva. Il montaggio che c’è dietro a un semplice servizio giornalistico è semplicemente sbalorditivo.
Erik Gandini: Vero! Ricordi la storia di Berlusconi, ormai mitica, in Bulgaria dove minacciò la stampa? I servizi televisivi non riportarono le parole del Presidente ma fu l’inviato dal luogo a filtrare la notizia e così tu eviti la realtà. Secondo me questa cosa ha a che fare con il concetto di come usi la videocamera: se usi la videocamera per illustrare le cose o per riprenderle. Il fatto di riprenderle è rivoluzionario: vedi l’esempio di Checkpoint, che è un film che si basa su quello che il potenziale della videocamera. Prendere il tempo così come il tempo è, riprendere il reale insomma.
Un concetto quasi vertoviano.
Erik Gandini: Infatti, è come se tu all’improvviso fossi lì, perché i fatti si svolgono nei tempi in cui si sono veramente svolti, la realtà si svolge nella sua forma originale. È un tipo di documentario che richiede una tecnica di lavorazione, se vuoi, noiosa perché ci vuole molta pazienza però la forza di quel film è immensa. Puoi vedere mille reportages in televisione sulla Palestina ma la visione di Checkpoint ti spalanca gli occhi sulla questione come mai mi è capitato di vedere. Questa, ripeto, è l’immensa forza del documentario: quella stessa forza che cerco di ricreare nelle mie opere.