Call If You Need Me

Call If You Need Me

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Il trentaseienne malese James Lee torna al Torino Film Festival con Call If You Need Me, opera della maturità per un regista ancora giovanissimo.

Anatomia di un tradimento

Or Kia parte dal piccolo villaggio in cui vive per raggiungere il cugino Ah Soon, emigrato anni prima nella grande città, dove lavora nel settore recupero crediti per conto di un boss della malavita. Inizialmente impacciato, Or Kia si unisce al gruppo di piccoli criminali e finisce per surclassare Ah Soon, arrivando a capeggiare la banda. [sinossi]

Pur non avendo ancora raggiunto i quarant’anni – la sua data di nascita informa che venne al mondo nel 1973 – James Lee è un nome di non poco conto per quel che riguarda gli equilibri produttivi del sud-est asiatico; dopotutto è anche per merito suo se la cosiddetta new wave malese, verso cui negli ultimissimi anni ha iniziato a dirigere lo sguardo l’intelighentia cinefila, ha ottenuto la visibilità che meritava. Lee non è un nome nuovo neanche per il Torino Film Festival, che lo accolse nel 2004 con l’acclamato The Beautiful Washing Machine e torna oggi, a distanza di un lustro, a innalzare il suo nome agli onori delle cronache. Nel frattempo la Malesia ha smesso di essere cocciutamente confusa con i romanzi di Salgari, grazie ad autori come Amir Muhammad (il cui documentario The Big Durian fu prodotto proprio da Lee attraverso la sua casa di produzione Doghouse73) e Woo Ming-jin – altro ospite più o meno fisso all’ombra della Mole Antonelliana –, e non si ha più l’impressione di assistere a chissà quale evento esotico.

L’aggettivo che viene immediatamente formulato dalla mente durante la visione di Call If You Need Me, nono lungometraggio del cineasta nativo di Ipoh, è maturo: se nel corso degli anni la macchina cinematografica messa in piedi da Lee, pur ammaliando in ben più di un’occasione, sembrava sempre trascinare con sé le scorie di un’umoralità altalenante, producendo un curioso saliscendi emotivo e caratterizzando le opere con una serie non sempre ben amalgamata di stasi e ripartenze, Call If You Need Me appare granitico nella sua struttura narrativa. Si dirà di più: la storia di Or Kia, ingenuo ragazzo di campagna che arriva nella grande città per seguire le orme dell’ammirato cugino Ah Soon, finendo ben presto in un vortice di illegalità e violenza dal quale appare realmente arduo riuscire a uscire indenni, somiglia da vicino a una vera e propria parabola morale, con i personaggi messi in scena da Lee a fungere da figure simboliche. La caduta nel mælström (o discesa agli inferi, se preferite) non consente di acquistare alcun biglietto di ritorno, e il regista di Things We Do When We Fall in Love riesce a descriverla con uno stile asciutto e classico allo stesso tempo, ulteriore dimostrazione palese di quella maturità cui facevamo rapidamente cenno poc’anzi. Nel trattare una materia che sembra provenire senza scali intermedi dalla New Hollywood degli anni Settanta, o dalla Hong Kong pre-hangover, Lee sceglie una via dicotomica che potrebbe far arricciare il naso a ben più di uno spettatore, ma verso la quale non sarebbe davvero il caso di mostrare troppa sufficienza: se da un lato infatti si assiste a una progressione narrativa che non nasconde le derivazioni dal gangster-movie classico, dall’altro Lee affida la sua creatura a un utilizzo del digitale a dir poco spiazzante, con le inevitabili sgranature della fotografia – soprattutto nelle sequenze notturne – inserite in una scelta stilistica che fa dell’inquadratura fissa la sua vera e propria cifra autoriale. Un’inquadratura però mai ovvia, mai eccessivamente prevedibile, in cui il volto di Or Kia (interpretato in modo sommesso e al contempo subdolo da Sunny Pang, in grado di riflettere la sgradevole meschinità del personaggio) acquista il senso di vero e proprio motore unico della vicenda.

È la sua storia, che narra di un uomo semplice e forse persino ingenuo che riesce, attraverso il suo aspetto ordinario e la sua apparente innocenza a scalare uno per volta i gradini della malavita locale, quella verso la quale punta realmente l’obbiettivo Lee: da principio il film mantiene le istanze e i ritmi di un racconto corale, ma si tratta solo di apparenza. Il crollo della morale, ideale filo conduttore di questi primi giorni di festival – si pensi a La bella gente di Ivano De Matteo, ma ancor più allo splendido Police, Adjective di Corneliu Porumboiu – passa qui attraverso le prese di posizione prone e sottovoce di Or Kia, fino alla deflagrante scelta finale che lo pone, finalmente, di fronte alle proprie responsabilità. Tradire o non tradire, questo è il problema: non vi verrà svelato il finale di Call If You Need Me, tranquillizzatevi, ma sembrava giusto mettere l’accento su quello che è il vero scopo del film, vale a dire la necessità di riflettere sulla incancrenita contemporaneità, figlia del capitalismo più sfrenato (Call If You Need Me è letteralmente infarcito di riferimenti a macchine di lusso, i-phone, vestiti alla moda, in un universo in cui l’abito fa sempre più il monaco), che ha barbaricamente preso d’assalto le certezze della morale. Un mondo dove persino dietro una frase conciliante e sensibile come “chiamami se hai bisogno” sembra nascondersi il ghigno deforme della crudeltà.

Info
Call If You Need Me sul sito del Torino Film Festival.

  • call-if-you-need-me-2009-james-lee-01.jpg

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