Kotoko

Shinya Tsukamoto torna alla regia con Kotoko, un film rapsodico, tragico e ossessivo, dal quale è impossibile non farsi travolgere.

Madre e figlio

È la storia di una madre che soffre di visione doppia. Vede le persone divise in due… una negativa e una positiva. Questo disturbo le provoca un forte senso di disagio e prendersi cura del piccolo diventa un compito estenuante che la porterà all’esaurimento nervoso. Quando la situazione le sfugge di mano, è accusata di abusi sul bambino che di conseguenza le viene tolto. Mentre canta, però, non vede doppio. Quello è l’unico momento in cui il mondo torna a essere uno e la sua mente trova la pace. Conosce un uomo, incantato dalla sua voce, ma la storia tra i due finisce presto. Nel frattempo ottiene di nuovo la custodia del bambino, ma le sue “visioni doppie“ diventano così intense che… [sinossi]

Quando, due anni fa, Shinya Tsukamoto fece il suo esordio ufficiale nel Concorso della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dopo anni di sezioni collaterali) presentando al pubblico Tetsuo: The Bullet Man, terzo e conclusivo capitolo della saga cyberpunk sull’uomo/macchina, apparve evidente ai conoscitori dell’esperienza autoriale del cineasta nipponico che un’epoca si era (definitivamente?) chiusa, e che Tsukamoto avrebbe dovuto trovare nuove ispirazioni. La poetica del corpo come elemento aggregabile, distruggibile, morto e resuscitato aveva prodotto alcuni tra i più deflagranti bombardamenti visionari degli ultimi decenni, in opere quali Tokyo Fist, Bullet Ballet, Gemini, A Snake of June e Haze. In realtà già da alcuni anni il cinquantunenne regista nativo di Tokyo (per l’esattezza a Shibuya, cuore pulsante della megalopoli) sembrava essersi accostato a un approccio più direttamente psicologico, invece della mostra delle atrocità che era sempre stata riconosciuta come marchio distintivo della sua estetica: già Gemini era costellato di incubi e false visioni, smentite poi nel corso della pellicola; e se A Snake of June conduceva nuovamente dalle parti di una carnalità sofferta, decadente e destinata alla putrefazione, Vital appariva come un tentativo spiazzante, in cui i muscoli e le interiora della ragazza deceduta sprigionavano – durante una dolorosa autopsia – le memorie celate e rimosse del protagonista. Da qui in poi la riflessione sulla materialità in Tsukamoto è sempre andata a braccetto con uno scandaglio psicologico mai troppo incline alla quadratura del cerchio: è stato così nel dittico dedicato al “detective dell’incubo”, dove l’assassino raggiunge le sue vittime senza possedere più neanche un briciolo di fisicità, e anche nel già citato Haze, dove la sofferenza fisica dell’uomo intrappolato nel claustrofobico labirinto trova il suo contrappasso naturale nell’elegia mentale dell’ultima parte del mediometraggio.

Anche Kotoko, presentato in concorso nella sezione Orizzonti durante la sessantottesima edizione della Mostra (1), muove i suoi passi su un territorio ibrido, dove una carnalità esibita con violenza, esagerata, autolesionista si scontra senza mezze misure con la mente problematica e dissociata della protagonista, una madre single che deve crescere il suo bambino neonato nonostante le “visioni doppie” che la assillano e la fanno vivere sempre a ridosso del baratro della follia. Per quanto il film a cui viene più naturale accostare Kokoto sia Vital, non c’è dubbio che con questo suo dodicesimo lungometraggio (al quale si aggiungono i medi Le avventure del ragazzo del palo elettrico e Haze e il corto The Phantom of the Regular Size, suo lavoro d’esordio nell’oramai lontano 1986) Shinya Tsukamoto si sia mosso in una direzione finora mai realmente tentata, per lo meno dal punto di vista della scrittura pura e semplice. Kotoko si articola mettendo in scena le timbriche più disparate, all’interno di un complesso progetto narrativo che si muove seguendo l’instabilità umorale di una donna in piena crisi nervosa (una straordinaria Cocco), attanagliata dalla disperata paura che suo figlio sia vittima della sua sbadataggine, o di qualche agente esterno intenzionato a far del male a lei e al bambino. Si viaggia così su binari ansiogeni, quasi autistici nella propria ripetitività coatta, nei quali però irrompono sprazzi di luce splendidi e inaspettati: la lunga sequenza in cui Kotoko va a far visita al suo piccolo Daijiro, affidato dai servizi sociali alla sorella della donna, è carica di una tenerezza straziante ma mai incline alla sovraesposizione melodrammatica. Un nitore che verrebbe naturale definire “quotidiano” e che viene a sua volta spazzato via dall’improvviso ingresso in scena del personaggio del romanziere di successo Seitaro Tanaka (interpretato dallo stesso Tsukamoto, come al solito vero e proprio one man band sul set) innamoratosi a prima vista di Kotoko e pervicacemente convinto di poter far parte della sua vita (2). Per circa una ventina di minuti Kotoko prende la direzione di una rom-com sgangherata e innaturalmente iper-violenta, ma allo stesso tempo in grado di trascinare alla risata incontrollata anche lo spettatore più restio.

Tutto questo senza che Tsukamoto abbandoni mai la rapsodia visiva con cui muove nervosamente la videocamera, tra movimenti sporchi e scarti improvvisi, accelerazioni e deliqui onirici. Come se Tetsuo fosse impegnato in un amplesso con un dramma da camera à la Bergman, Kotoko rinnova non solo la poetica tsukamotiana, ma dà un nuovo senso a una tematica perfino abusata nella contemporaneità, quella della donna sola schiacciata dal peso della società in cui vive. Senza mai scendere a patti con la retorica, ma giocando altresì con grande abilità tanto con le digressioni oniriche quanto con l’impianto meramente naturalistico, il cineasta giapponese porta a termine un’elegia poetica disperata ed emozionante, davanti alla quale è davvero difficile non lasciarsi corrompere dalle lacrime. La dolcezza si mescola a una violenza crudele e senza limiti – Kotoko si taglia ogni giorno le braccia con una lametta, sanguinando copiosamente; a sua volta durante la relazione con lo scrittore non esita prima a pugnalargli ripetutamente le mani con una forchetta, quindi a pestarlo selvaggiamente dopo averlo legato; in una delle visioni della protagonista, dei militari entrano nella sua stanza da letto e sfondano la testa del bambino con una fucilata –, così come il riso lascia il campo alla depressione e viceversa. Un lavoro per contrapposizione che rende Kotoko una delle visioni più sconvolgenti dell’intero 2011, grazie anche a un finale capace di scardinare qualsiasi resistenza emotiva. Se questa è solo l’alba del nuovo corso della poetica di Tsukamoto, il futuro si prospetta davvero roseo.

Note
1. Nessuno si sarebbe scandalizzato nel vedere questo titolo inserito tra i concorrenti al Leone d’Oro, discorso valido anche per altri film programmati nella seconda sezione per importanza della kermesse, come Hail di Amiel Courtin-Wilson e The Orator di Tusi Tamasese. Anche il rotoscopio ceco del fuori concorso, Alois Nebel di Tomas Lunak, avrebbe meritato una sorte simile….
2. Tra i libri del romanziere citati nel corso del film spicca la fin troppo esplicita autocitazione di Bullet Dance.
Info
Il trailer di Kotoko.
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