Tales from the Dark 2

Tales from the Dark 2

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Pillow. Da quando il suo ragazzo l’ha piantata in asso dopo un litigio, Yee non riesce a dormire. Ritrova il sonno solo grazie a un particolare cuscino, e durante i pisolini il ragazzo torna a trovarla, ma in una forma assai meno pudica di quella mostrata nella realtà…
Hide and Seek. Se una scuola in disuso sta per essere abbattuta, non è una buona idea quella di intrufolarvisi per giocare a una variazione sul tema di nascondino…
Black Umbrella. La festa dei fantasmi attira a Hong Kong la fauna più disparata, tra cui il distinto Lam, un piccolo uomo di mezza età deciso a fare del bene. Almeno fino a quando non viene provocato… [sinossi]

I film dell’orrore a episodi non sono certo una rarità nel vasto panorama cinematografico, ma nei paesi dell’estremo oriente e del sud-est asiatico rappresentano una vera e propria certezza distributiva. Dal Giappone alla Corea, dalla Thailandia alla Malesia, è piuttosto facile imbattersi in opere collettive, destinate a spaventare e a divertire un pubblico di massa, in particolar modo composto da adolescenti e giovani adulti. In questo contesto produttivo si inserisce alla perfezione anche Tales from the Dark, dittico che ambisce a unire sotto un’unica bandiera – divisa equamente in due parti – sei tra i più interessanti registi hongkonghesi, impegnati nel compito di tradurre in immagini le inquietanti novelle del terrore di Lilian Lee, celebre anche in Occidente per il romanzo da cui Chen Kaige trasse Addio mia concubina. In tempi più recenti, nel 2004, Fruit Chan pescò a piene mani nell’immaginario disturbante della Lee per orchestrare il suo Dumplings, ospitato (a proposito di opere a più mani) all’interno di Three… Extremes.
Lo spettatore più smaliziato non avrà dunque problemi a inquadrare Tales from the Dark e Tales from the Dark 2, entrambi inseriti fuori concorso all’interno della selezione del Festival di Roma: un progetto che vede scorrere uno accanto all’altro i nomi di Simon Yam, Chi Ngai Lee, il recidivo Fruit Chan, Gordon Chan, Lawrence Lau e Teddy Robin. Roma – che ha deciso di non seguire l’ordine cronologico di produzione per le proiezioni, del tutto ininfluente visto che i sei cortometraggi non sono in alcun modo legati gli uni agli altri – apre dunque le porte dell’Auditorium a un’idea di cinema popolare promosso e difeso nel corso degli anni da eventi meritori come l’udinese Far East Film Festival, ma che potrebbe spiazzare l’ancora incolto pubblico capitolino.

Per quanto riguarda il secondo capitolo, di cui ci si occupa in questa sede, mette insieme tre nomi fondamentali per la storia più e meno recente del cinema della città/stato. Gordon Chan ha diretto nell’ultimo trentennio un film all’anno, tra i quali meritano una citazione a parte per lo meno Fist of Legend e Beast Cops; Lawrence Lau (noto anche come Lawrence Ah Mon) non ha invece mai legato il suo nome all’horror, preferendo incentrare il proprio sguardo sulle disparità sociali e il classismo del sistema politico di Hong Kong; Teddy Robin, infine, è uno dei cantautori pop di maggior successo dell’ex colonia britannica, noto anche al pubblico del grande schermo per le sue interpretazioni in molte pellicole di successo e per le sporadiche incursioni dietro la macchina da presa (ad esempio Shanghai, Shanghai, con un monumentale Sammo Hung). I tre episodi di cui si compone Tales from the Dark 2 virano in direzione della ghost-story con una certa insistenza: Chan vede nel fantasma la materializzazione di un sogno/incubo fisico prima ancora che mentale, Lau si diverte a innervare la materia ectoplasmatica di rimandi al teenage movie, Robin ambienta la sua bizzarra storia al limitar del demoniaco proprio durante il Chung Yuang, la “festa dei fantasmi” che si tiene per tradizione durante la quindicesima notte del settimo mese lunare. Le tre variazioni sul tema mostrano anche attitudini e pratiche cinematografiche piuttosto distanti tra loro: Chan ambisce (senza riuscirvi in maniera particolare) a un racconto che mescoli horror e melò, Lau si dedica a un divertissement da ritmi, toni e slanci registici inclini a cedere al fascino del buffonesco, e Robin tinteggia la sua storia di timbriche cariche di una crudeltà sardonica e dissacrante. Se Pillow, pur partendo da uno spunto tutt’altro che disprezzabile, disperde il suo potenziale in una narrazione reiterata in maniera eccessiva e soprattutto in un finale monco, quasi atrofizzato, sia Hide and Seek che Black Umbrella riescono a intrattenere il pubblico, pur senza arrivare a strafare.
La storia dei ragazzini impegnati a giocare a “fantasma e cacciatore” (sorta di mix tra i nostrani nascondino e assassino) offre da subito il fianco a una serie di giochi interni alla narrazione che Lau non si lascia sfuggire, firmando il più ironico dei tre frammenti. Ma a risollevare le sorti dell’intero film ci pensa il cortometraggio di Robin, slabbrato e squilibrato al punto giusto, trattenuto fino a una deflagrazione irresistibile e carica di un immaginario puramente – e finalmente – orrorifico.

Nulla per cui valga la pena spellarsi le mani, probabilmente, ma simbolo di un sistema produttivo che ancora riesce a trovare valvole di sfogo, condotti d’aria salvifici all’interno della soffocante industria. Un particolare che in Italia si è smarrito nel corso del tempo, impalpabile e sfocato, oramai. Proprio come un fantasma.

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