Blue Sky Bones

Blue Sky Bones

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In concorso al festival di Roma, Blue Sky Bones è l’esordio al lungometraggio del rocker Cui Jian, una riflessione libertaria e ipnotica sul passato e il presente della Cina (post)comunista.

Un ragazzo, musicista hip-hop dedito all’hackeraggio, riceve da suo padre uno scatolone con foto e racconti della storia della sua famiglia: la madre, una donna bellissima, si trovò costretta – causa intervento del regime – ad abbandonare i suoi amori giovanili e a sposarsi con un grigio burocrate, il padre del protagonista, per l’appunto, ormai malato. Acquisita coscienza della sua storia, il ragazzo si lancerà in un’impresa musicale in cui poter affermare il suo spirito indipendente. [sinossi]

La vitalità del cinema cinese, come al solito nelle sue manifestazioni più eccentriche rispetto al discorso del regime, la si è potuta verificare anche recentemente, sia pur con pochissimi titoli, nei festival italiani degli ultimi mesi: Trap Street di Vivian Qu (alla Mostra del Cinema di Venezia) e ora, qui a Roma, Blu Sky Bones di Cui Jian. Presentato in concorso, il lungometraggio d’esordio del rocker storicamente più noto della scena musicale mandarina e figura iconica delle proteste di Piazza Tiananmen (la sua canzone Nothing to My Name era un inno degli studenti) è un nuovo – sottile e malinconico, pubblico e privato – atto d’accusa verso il regime. Difficile, in realtà, ridurre questo film a una dimensione da cinema “civile”, anche se i suoi turning point narrativi sono di natura prettamente politica visto che hanno luogo in relazione a due interventi di censura da parte delle autorità: la condanna, nel 1972, nel pieno della Rivoluzione Culturale, nei confronti della madre del protagonista che si era esibita in una canzone e in un balletto dai toni intimistici e sensuali e quella, quarant’anni dopo, che subisce il protagonista perché ha osato sfidare le autorità nel mondo della rete.

Blue Sky Bones è però soprattutto una rievocazione dialettica tra un passato coloratissimo e evidentemente illiberale (gli anni della Rivoluzione Culturale) e un presente dai toni freddi e da una libertà solo apparente. In tal senso, Cui Jian costruisce il suo film su una serie di opposti – narrativi, visivi e simbolici – che finiscono poi per dialogare ed incontrarsi: cruciale è in tal senso la canzone che il protagonista costruisce a partire da un testo scritto da sua madre, La stagione perduta. La riappropriazione di un passato rinnegato, dimenticato e rimosso, fa sì che il protagonista trovi gli strumenti per affrontare a viso aperto la sfida del presente. E se la narrazione è costellata da tanti piccoli frammenti narrativi che poi man mano prendono forma compiuta e si riaccostano l’un l’altro fino a completare una sorta di puzzle, la dimensione della messa in scena è altrettanto complessa e stupefacente. Fondamentale – in tal senso – il contributo del direttore della fotografia, Christopher Doyle, che riesce nell’impresa – mai esperita in tempi recenti – di riuscire a ridonare le stesse tonalità dei colori della Rivoluzione Culturale, quei colori che nelle foto e nei film dell’epoca erano allo stesso tempo accesissimi e strabordanti, sia pur come tenuti a distanza, immateriali.

Protagonista di Beijing Bastards di Zhang Yuan esattamente vent’anni fa, Cui Jian dimostra con questo suo film di poter far rientrare perfettamente il suo approccio cinematografico nello stesso campo di quella generazione nata ai primi degli anni ’60, la stessa cui del resto appartiene anche il regista e attore Jiang Wen: una generazione troppo giovane per subire in prima persona i drammi della Rivoluzione Culturale e troppo poco per aver potuto rimuovere tutto il proprio passato nel momento in cui le autorità hanno deciso di abbracciare il capitalismo. Questa tensione la si vede all’opera in Blue Sky Bones, come uno scheletro su cui si regge tutto il film, così come già nel ’94 permeava In The Heat of the Sun, esordio alla regia dello stesso Jiang Wen.

Colorato, iconoclasta e spiazzante, energico e ipnotico, Blues Sky Bones è un perfetto modello – aggiornato – di quel cinema dei primi anni Novanta che sembrava perduto – cui gli stessi Zhang Yuan e Jiang Wen sembrano essere venuti meno – poi surclassato dalla maestria rigorosa e più fredda di Jia Zhangke. Con Cui Jian, che ci ha raccontato qui al festival di voler continuare a fare cinema, il cinema cinese sembra aver guadagnato un altro autore, probabilmente impermeabile – per via della sua stessa formazione artistica e politica – alle influenze negative del regime.

INFO
Blue Sky Bones sul sito del Festival di Roma.
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