Roma 2014 – Bilancio
Si chiude anche la nona edizione del Festival di Roma, con il già annunciato addio di Marco Müller: si chiude anche una parentesi estremamente positiva all’interno di un evento che continua a essere soprattutto una vetrina per il potere politico cittadino.
Smantellamento. Questa sarà la parola d’ordine, con ogni probabilità, che si rincorrerà negli uffici della Fondazione Cinema per Roma quando verranno ricordate le tre edizioni del Festival Internazionale del Film dirette da Marco Müller: un interludio visto con sospetto da chi gestisce la res publica capitolina fin dall’investitura, ricevuta nel 2012 da Gianni Alemanno e Renata Polverini. Prima che si incappi nell’errore di leggere in questo un’opposizione politica e ideologica, è giusto ricordare come il festival mülleriano si sia smarcato da subito, con facilità, dagli schematismi piuttosto beceri del centro-destra romano, per muoversi in libertà in direzione di una kermesse che rinunciasse almeno in parte al tappeto rosso per star non sempre di primaria importanza a favore invece di una selezione più ricca, in grado di coniugare l’intrattenimento con la ricerca, il cinema “popolare” e l’avanguardia, il documentario e la finzione.
Ciò che ancora oggi non viene riconosciuto a Müller è proprio il merito di aver restituito ai dieci giorni di cinema dell’Auditorium una decenza troppo spesso venuta meno nel corso delle edizioni precedenti. In questo senso alcuni articoli letti a ridosso della conclusione del festival (a partire dal trafiletto redatto da Valerio Cappelli per il Corriere della Sera) non sono solo male informati, ma denotano una malafede pregiudiziale, come se i giochi fossero stati decisi mesi fa, se non di più.
Pur dovendo fronteggiare un’edizione orrendamente mutilata dalle volontà ben poco comprensibili della Fondazione, con l’intera sezione CinemaXXI abbandonata per snellire un palinsesto che, nelle idee di chi si muove nella stanza dei bottoni, appare più come una rassegna che come un festival internazionale, Müller e il suo staff sono stati in grado di tracciare in ogni caso un percorso logico, che sapesse trovare una propria via d’espressione anche nel soffocante condotto d’aria in cui era stato relegato. Anche senza dover scomodare David Fincher e il suo Gone Girl (anteprime di questo tipo erano all’ordine del giorno anche durante gli anni della Detassis, tanto per dirne una), al Festival del 2014 è stato possibile imbattersi nel sublime Aleksei Fedorchenko di Angels of Revolution, nel Takashi Miike di As the Gods Will, nell’Andrea Tonacci di Já visto jamais visto, nel Christian Petzold di Phoenix, nell’Amleto bollywoodiano diretto da Vishal Bhardwaj in Haider, nel vampirismo iraniano-americano di A Girl Walks Home Alone at Night di Ana Lily Amirpour, nell’ibrido tra umano e tricheco descritto da Kevin Smith in Tusk. La dimostrazione, a conti fatti, della capacità di Müller di allestire un programma con non pochi spunti d’interesse anche in una situazione compromessa.
Perché la vera guerra al Festival di Müller non l’hanno portata avanti i quotidiani (schierati in maniera netta in particolar modo per scelte di comodo politiche), e neanche il pubblico che ha comunque partecipato all’evento, ma è stata il frutto di una trama ordita da chi, al Comune e in Regione, tiene le redini della Fondazione.
Il vero problema, con cui sarà naturale tornare a scontrarsi tra dodici mesi, è infatti l’insano legame che avvince il festival al potere politico: non è possibile, né accettabile, che un evento cinematografico che si vorrebbe di portata internazionale debba essere soggiogato in maniera così totale alle volontà, ai vantaggi e alle percezioni di chi da più di vent’anni – piccole parentesi a parte – pone le mani sulla questione culturale. Un dissesto endemico, che mina le certezze di Roma fin dalla fondazione del festival, voluta da Walter Veltroni insieme a Goffredo Bettini, figlio della svolta riformista del PCI alla fine degli anni Settanta e da sempre ombra lunga del partito (PCI, PDS, DS e ora PD) sulla Capitale.
Finché non ci sarà la volontà di confrontarsi in maniera seria e super partes su questo strozzamento del processo democratico per quanto concerne la gestione culturale di Roma – e rientra in questo discorso anche la discutibile gestione del Maxxi – sarà impossibile donare al Festival/Festa una propria peculiarità riconoscibile anche all’estero. E ipotesi ventilate come quella che vorrebbe il festival trasformato in una “festa della commedia”, non farebbero che avvicinare ulteriormente al baratro questo giocattolo. Un giocattolo che costa otto milioni di euro, di cui la metà (o anche di più) dovuta agli stipendi di chi è assunto in Fondazione per lavorare tutto l’anno sulla “questione-cinema”: peccato che i lavori della Fondazione non siano particolarmente percepibili durante l’anno, se si eccettua il Festival e qualche iniziativa legata alla risibile sala cinema del Maxxi.
Una spesa ingiustificata, che ben poco (niente) ha a che fare con il lavoro svolto da Müller, ma su cui quasi nessuno ha mai avuto troppo interesse a puntare l’accento. La Fondazione Cinema per Roma avrebbe le potenzialità economiche per incidere in maniera concreta sulla sonnolenza culturale di una città splendida quanto sprecata, sciupata dal potere politico e abbandonata al proprio destino da una popolazione disabituata all’arte, e alla (grande o piccola che sia) bellezza. Perché buttare al vento questa opportunità?
Ma dall’anno prossimo si tornerà alla Festa pura e semplice, qualche divo d’oltreoceano verrà a svernare per qualche giorno negli alberghi a cinque stelle della città e si allungherà oziosamente fino alle periferie per farsi vedere da chi non ha accesso (e mai l’avrà) al movimento culturale cittadino. Si tornerà a festeggiare, ubriacandosi in attesa di un futuro del quale nessuno ha voglia di edificare le basi…