Le vacanze di Monsieur Hulot

Le vacanze di Monsieur Hulot

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Dopo Mon oncle e Playtime, torna in sala anche Le vacanze di Monsieur Hulot, nella versione del 1978 voluta dallo stesso Tati. Un albergo, una spiaggia, le voci dei bambini, una macchina scalcinata, una porta che cigola: a partire da pochi elementi audio-visivi Tati costruiva un monumento all’assurdo malinconico del vivere.

Una giornata al mare, tanto per non morire

Monsieur Hulot, a bordo del suo scoppiettante macinino, arriva in un villaggio balneare della costa bretone per trascorrere le sue vacanze in una pensione. [sinossi]

Rivedere oggi un film come Le vacanze di Monsieur Hulot (1953), che torna in sala grazie a Ripley’s Film e Viggo nella versione del 1978 voluta da Tati, provoca un senso insieme di stordimento e di pacificazione. Entrambe le reazioni derivano da una caratteristica precisa e quasi unica di questo film: la mancanza di narrazione. Non vi è infatti in Le vacanze di Monsieur Hulot un filo logico da seguire né una divisione strutturale del racconto, con una introduzione uno svolgimento e poi un climax. Piuttosto, il canovaccio è di una semplicità disarmante: Hulot raggiunge in macchina un albergo sul mare e ivi passa le sue vacanze insieme ad altri turisti. E il film finisce con la fine della stagione estiva.
Persino se si pensa alle comiche americane degli anni Venti, cui pure ovviamente Tati ha più di un elemento in comune, si può facilmente verificare quale e quanta sia la distanza da quella formula consolidata. Il senso della maggior parte delle comiche di Laurel & Hardy, come di Keaton, di Chaplin o di Harold Lloyd, era quasi sempre basato su un crescendo, portato avanti attraverso l’accumulo di situazioni e di ripetizioni ossessive (e sempre più spassose) fino al ‘catastrionfo’ finale (per prendere in prestito una formula ghezziana). Oppure – soprattutto in una seconda fase, più matura – vi erano elementi da classiche storie d’avventura, o d’amore, o ancora di (sovente mancato) riscatto sociale, che permettevano di trovare un appiglio con la narrativa tradizionale.
Ne Le vacanze di Monsieur Hulot invece non vi è progressione, né ripetizione tesa ad aumentare la temperatura della risata. Questa, piuttosto, sale e scende in base ai momenti, in base alla singola trovata o alla singola variazione. E non vi sono storie d’amore; vi troviamo qui appena un accenno, senza che sia portata avanti fino in fondo, e anzi dopo il ballo in maschera viene letteralmente abbandonata senza motivi apparenti. Certo, siamo – se vogliamo – nel campo del picaresco, ma è un picaresco in certo modo ‘immoto’, oscillante in pochi metri quadrati, tra l’albergo e la spiaggia, con poche sortite al di là di questi due luoghi deputati.

Lo stordimento e la pacificazione di fronte a Le vacanze di Monsieur Hulot derivano perciò proprio da questo: dalla ri/scoperta di un capolavoro completamente privo di trama. Per fortuna si può fare. O, almeno, si poteva fare. Perciò, come forse nessun altro grande autore della storia del cinema, Tati riesce nell’impresa di elevare il dettaglio a sistema, riesce a dargli la precedenza rispetto all’insieme del discorso.
Eppure, detto questo, non bisogna dimenticare che vi è un unico fil rouge di cui si sostanziano tutti i suoi film: l’assurdità del quotidiano, la ritualità del gesto che viene smascherato nella sua totale mancanza di senso.
Però, se in un film come Mon oncle (che non a caso è successivo), questo discorso viene messo al servizio di un confronto tra due differenti mondi – il moderno e l’antico -, in Le vacanze di Monsieur Hulot il tema è ‘assoluto’, senza alcun tipo di contraltari. E dunque in certo modo permette di focalizzare ancor meglio la poetica del cineasta francese.
Nell’albergo in riva al mare in cui si affollano una serie di strambe creature, ciascuno con la sua propria lingua e con i suoi propri comportamenti (a partire dal cameriere nullafacente che viene sempre richiamato all’ordine dal cigolio della porta quando qualcuno entra), ciò che finisce per emergere è per l’appunto l’assurdo malinconico del vivere, un certo vuoto di senso che si esplica per noi spettatori – e non per gli altri personaggi – grazie alla presenza involontariamente disturbante ed eccentrica di Hulot. Il personaggio di Hulot è infatti indispensabile per sottolineare quel che non torna nei codici del vivere sociale, codici che lui scombina senza volere. Però è poi la presenza registica che tesse le fila, e che ci rende chiaro il discorso sin dall’inizio: quando ad esempio tutti i villeggianti si spostano in spiaggia, Tati ci mostra un’inquadratura dal punto di vista dell’albergo, dove arrivano gli echi delle voci dei bagnanti; mentre quando tutti rientrano in albergo, vediamo un’inquadratura della spiaggia e lì arriva l’eco del vociare dei turisti che sono a tavola a mangiare. In questo confronto di vuoti Tati non si limita a suggerirci che, senza l’uomo, i luoghi perdono di vita e di senso, ma arriva anche ad evocare il nulla del vivere, il non-senso, lo spazio sospeso tra un rito quotidiano e l’altro, sospensione che d’altronde è una sensazione tipica dello stato di vacanza.

Così, quei pochi appigli di contestualizzazione storica – all’inizio Tati fa indiretto riferimento al meccanismo delle vacanze collettive retribuite che entrarono in vigore nel 1936, poi allude alla guerra (ma Hulot alza il volume del giradischi per non sentire la radio che annuncia un possibile conflitto bellico), quindi si sente un giovane politicizzato che parla di socialismo (ma la ragazza che vuole rimorchiare si annoia a sentirlo parlare) – servono per darci qualche linea guida e per far sì che l’astrazione del luogo di villeggiatura possa esplicarsi ancor meglio. Di fronte a noi allora appare l’umano in tutta la sua piccolezza: non solo Hulot, tutti i personaggi sono un po’ ridicoli, alcuni sono anche un po’ meschini, altri sono egoisti e tronfi, altri ancora noiosi; e tutti, senza alcuna distinzione, sono osservati da Tati con affetto quasi divino. Il regista li osserva dall’alto, ride un po’ di loro, come noi spettatori, ma prova allo stesso tempo verso di loro tenerezza ed empatia. Perché, d’altronde, anche noi siamo così.

Info
Il sito ufficiale dedicato a Jacques Tati.
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