Mon oncle
di Jacques Tati
Ripley’s Film in collaborazione con Viggo riporta in sala quattro film restaurati di Jacques Tati. Si comincia con Mon oncle, in sala dal 6 giugno, suo terzo film da regista in cui metteva in contrapposizione tradizione e modernità per una geniale satira anti-borghese.
O tempora, o mores
Arpel, ricco industriale e fiero della sua casa futurista piena di gadget tecnologici dalla scarsa utilità, vuole evitare che il cognato, Monsieur Hulot, personaggio sognatore e bohemien, possa influenzare negativamente suo figlio. Prova dunque a farlo impiegare nella sua fabbrica, sia per l’insistenza della moglie, sia per tener lontano Hulot dalla sua casa. [sinossi]
Fece scalpore nel maggio del 2013 il successo di Vogliamo vivere, film di Lubitsch del 1942 riportato in sala, in versione restaurata in digitale, su iniziativa della Teodora. Pochi mesi dopo la Cineteca di Bologna lanciò un suo progetto di distribuzione, “Il cinema ritrovato al cinema“, che prosegue ancora oggi e ha riportato in sala decine di capolavori del passato, da Salò o le 120 giornate di Sodoma a Rocco e i suoi fratelli, passando per Barry Lindon. E questa tendenza sta subendo nelle ultime settimane un’impressionante accelerazione, allargandosi a diversi distributori: non solo la rassegna di Lab 80 Film – che riprende in realtà una sua pratica degli anni Novanta – dedicata a Gene Tierney con quattro titoli che la vedevano protagonista tornare su grande schermo (Il cielo può attendere, Femmina folle, Vertigine e Il fantasma e la signora Muir), non solo l’uscita prevista per il nove giugno di Un americano a Parigi, distribuito da Cinema, la nuova società di Valerio De Paolis (che nel giro di un anno e mezzo ha conquistato un’importante nicchia di mercato per quel che riguarda il cinema d’autore presentato e premiato ai festival, da Al di là delle montagne a I, Daniel Blake di Ken Loach), ma anche per l’appunto la mini-retrospettiva Jacques Tati, proposta dalla Ripley’s Film in collaborazione con Viggo, che riporta in sala nel mese di giugno quattro film diretti e interpretati dal cineasta francese: Mon oncle (dal 6), Playtime (dal 14), Le vacanze di Monsieur Hulot (dal 20) e Jour de fête (dal 27).
Le iniziative dunque si moltiplicano e si accavallano. Da un lato è giusto e sano che vi sia una diversificazione dell’offerta anche per quel che riguarda le riedizioni, in modo simile a quanto avviene da sempre in Francia, e allo stesso tempo è ovvio che non si può che esser felici dell’opportunità di poter recuperare in sala capolavori di tal fatta. Dall’altro però, ci si augura che prossimamente questo tipo di uscite non vengano relegate solo ai mesi estivi (quando il pubblico inevitabilmente diminuisce), ma che possano essere lanciate con maggior convinzione anche lungo tutta la stagione cinematografica. E ci si augura anche, ma qui siamo ormai già nel campo dell’utopia, che un giorno si potranno rivedere questi film anche nel loro formato originale, vale a dire in 35mm.
Nel caso specifico di Jacques Tati comunque il lavoro di restauro digitale, portato avanti dalla società francese Les Films de Mon Oncle, sembra essere di qualità davvero eccellente. Così ci è parso il restauro di Mon oncle, dotato di un colore e di una pastosità dell’immagine nettamente superiori rispetto a quel che si vede normalmente per altri tipi di riedizioni digitali (e ad esempio il restauro di Un americano a Parigi non sembra altrettanto convincente). È curioso poi che questo film di Tati, il suo terzo lungometraggio da regista, diretto nel 1958, ragionasse proprio sul conflitto tra tradizione e modernità, ambientato com’è nel mezzo di una rivoluzione industriale immediatamente precedente a quella attuale, quella cioè che portò alla società dei consumi, diretta genitrice della società dello spettacolo prima e di quella digitalizzata poi. Tati istituisce il conflitto vecchio/nuovo su un piano prima di tutto spaziale: da un lato il paese tradizionale con lo spazzino che si ferma a parlare con tutti, i vecchi che stazionano in piazza, i ragazzini che razzolano per strada, il caseggiato in cui abita Monsieur Hulot in cui non si riesce a distinguere lo spazio privato da quello pubblico; dall’altro la zona residenziale dove passano solo le automobili, non vi sono passanti e ogni abitazione appare come una monade, separata da un cancello e ostile all’esterno. I due spazi – due differenti concezioni della città racchiuse forzatamente in un unicum amministrativo – sono delimitati da un muretto di mattoni mezzo diroccato, zona di confine che viene attraversata nell’incipit da alcuni cani, rendendo così evidente sin dall’inizio quali saranno i luoghi deputati in cui si svolgerà il racconto.
Oltre ai cani vagabondi, Monsieur Hulot è l’unico personaggio, anche lui vagabondo di chapliniana memoria, che attraversa abitualmente entrambi gli spazi, ma solo perché va ogni giorno a trovare la famiglia di sua sorella, che abita in una futuristica villa nella zona nuova della città. E l’unico membro della famiglia Arpel con cui Hulot si trova a suo agio non può che essere il bambino, che apprezza in modo infantile l’essenza naturalmente anarchica del goffo zio.
A partire da queste situazioni di base, Tati come d’abitudine non sviluppa una narrazione lineare, quanto una dinamica del racconto che avanza per contrapposizioni, digressioni e accumuli, lavorando sull’impossibilità di adeguamento del “mon oncle” al contemporaneo. Costretto temporaneamente a fare l’operaio in fabbrica, Tati/Hulot – come un novello Charlot – fa saltare i meccanismi della catena di montaggio e fa uscire dalle macchine dei pezzi di plastica pieni di nodi e di deviazioni incontrollate che sono esemplificativi sia di un rifiuto istintivo verso l’ordine capitalista/neo-dittatoriale, sia verso un occhio lineare e ‘dritto’ nei confronti del mondo. E da lì forse nasce la digressione più bella del film, in cui il notturno tentativo di far sparire quei tubi di plastica, nati come aborti dell’industrializzazione, porta Hulot, suo nipote e i compagni di fabbrica, prima a litigare con una coppietta appartatasi ai bordi del fiume e poi a passare tutta la notte con loro a bere in un locale della città vecchia, a fare spontanea amicizia con chi – come loro – appartiene al popolo.
Al contrario, nel territorio della villa Arpel, non c’è modo di instaurare dei normali rapporti umani. È proprio la configurazione dello spazio, concepito più come vetrina che come un luogo abitabile, ad impedirlo. E così il ricevimento organizzato dalla sorella di Hulot per permettere al fratello di entrare in società si conclude in un disastro pre-Hollywood Party. E il linguaggio usato in società, espresso tramite frasi convenzionali e cerimoniose, non si addice a Hulot, che come al solito non ha bisogno di parlare per farsi capire dalla sua stessa classe, ma risulta incomprensibile per dei loquaci quanto vacui borghesi. La satira nei confronti di questi personaggi è davvero veemente, molto di più di quanto non abbia mai fatto Chaplin, venata da una crudeltà anti-borghese tipicamente transalpina, come quella di Alfred Jarry o di Artaud. I tic e le nevrosi del gruppo che affolla villa Arpel finisce dunque per connotare i membri della grottesca combriccola come delle stupide marionette, ottusamente innamorate di un benessere fine a se stesso; e in tal senso risulta centrale il pesce-fontana che, per risparmiare, viene azionato solo quando ci sono ospiti, e che finisce per creare diverse situazioni imbarazzanti. Sono degli oggetti tra gli oggetti, merce interscambiabile, come ciascuno dei dirigenti che si trova a zampettare nel giardino della villa.
Tati sa che però Hulot è un reperto del passato ed è destinato a sparire. Così il nostro protagonista nota sbalordito che da un giorno all’altro la figlia della portiera è diventata adulta, e infine si ritrova a essere spedito fuori città, obbligato a trovare lavoro altrove. E, nel momento esatto in cui Hulot parte, il bambino, privato della compagnia dello zio, trova un momento di complicità con suo padre. Che lo spirito di Hulot si sia trasferito sul pater familias? Forse. Forse un po’ umanità l’ha riavuta in dono anche lui e il mondo, anche quello di villa Arpel, non si disumanizzerà mai del tutto. I posteri ci diranno se succederà lo stesso con l’epoca digitale…
Info
Il trailer di Mon Oncle su Youtube
Il sito dell’omaggio a Tati.
La programmazione di Mon oncle sul sito Omaggio a Tati.
- Genere: comico, grottesco, surreale
- Titolo originale: Mon oncle
- Paese/Anno: Francia, Italia | 1958
- Regia: Jacques Tati
- Sceneggiatura: Jacques Lagrange, Jacques Tati, Jean L'Hôte
- Fotografia: Jean Bourgoin
- Montaggio: Suzanne Baron
- Interpreti: Adelaide Danieli, Adrienne Servantie, Alain Bécourt, André Dino, Édouard Francomme, Betty Schneider, Claude Badolle, Daki, Dominique Derly, Dominique Marie, Jean-François Martial, Jean-Pierre Zola, Lucien Frégis, Max Martel, Michel Goyot, Nicolas Bataille, Régis Fontenay, René Lord, Suzanne Franck, Yvonne Arnaud
- Colonna sonora: Alain Romans, Franck Barcellini, Norbert Glanzberg
- Produzione: Alter Films, Gaumont Distribution, Gray-Film, Specta Films
- Distribuzione: Ripley's Film, Viggo
- Durata: 117'
- Data di uscita: 06/06/2016