Femmina folle

Femmina folle

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Per la rassegna La Diva Fragile dedicata alla figura di Gene Tierney e promossa da Lab80 film, torna in sala in versione restaurata Femmina folle di John M. Stahl. Fiammeggiante melodramma noir girato in uno splendido Technicolor tra patologie psichiche ed estrema implosione di modelli culturali.

American Nightmare

Scrittore di successo, Richard Harland conosce in treno un’affascinante sconosciuta, Ellen Berent. Dopo aver passato un weekend insieme, Ellen fa di tutto per farsi sposare dall’uomo, colta da improvvisa passione. A poco a poco però la donna mostra di essere gelosa e possessiva nei confronti del marito fino alla patologia. Ne pagherà le conseguenze soprattutto Danny, fratello disabile di Richard… [sinossi]

C’è il rovescio del melodramma, tanto da sfiorare i confini del noir e anche del thriller ante litteram. C’è il disturbo mentale, la patologia relazionale, l’esplosione/implosione di interdetti psichici e sociali. Il melodramma americano dell’età classica, com’è ben noto, è un territorio percorso da venature inquietanti, laddove il contesto repressivo conduce nel migliore dei casi a tragici conflitti, e nel peggiore alla vera e propria turba comportamentale. Torna in sala in edizione restaurata l’opera che forse più di tutte ha consegnato Gene Tierney alla memoria cinematografica: quel Femmina folle (titolo originale di discendenza amletica, Leave Her to Heaven) che nel 1945-46, in piena epoca di entusiasmo postbellico, veniva a gettare immediatamente una luce sinistra sul Sogno Americano, in via di rinnovarsi su scala mondiale grazie ai trionfi della guerra appena terminata. Del cinema hollywoodiano Femmina folle riprende e amplifica tutta la sua potenza industriale. Si tratta infatti di un’opera produttivamente sontuosa, illuminata da uno squillante Technicolor, chiamato a enfatizzare sia i ricchi interni sia i paesaggi, opposti e liminari, del Maine e del New Mexico. E fin dalla sua frastornante sostanza cromatica il film del veterano John M. Stahl si pone in realtà come un tripudio di opposti, che mette in crisi oltre ogni previsione steccati di genere e prevedibilità stilistiche. È un noir-thriller, dominato da uno dei personaggi femminili più negativi che la storia del cinema ricordi, ma al fondo ha una squisita anima di melodramma: tratta di terribili e temibili patologie psichiche, ma immerse nel sole accecante di un eterno giorno, che non prevede quasi mai l’alternarsi con la notte. Di più, come dicevamo si tratta del sole di New Mexico e Maine, paesaggi tanto lussureggianti e privi di ombre quanto attoniti e impotenti spettatori di oscurità mentali.

Raccontato come un unico lungo flashback per voce di un amico di famiglia, Femmina folle mette in scena la passione che esplode repentina tra uno scrittore di successo, Richard Harland, e la bella e volitiva Ellen Berent, che s’incontrano su un treno e poi scoprono di essere ospiti degli stessi amici. Basta un week-end ed Ellen vuole sposarsi, dichiarandosi pazzamente innamorata. Solo che il “pazzamente” va inteso in senso assai letterale, poiché in tempi brevi Ellen mostra una gelosia possessiva nei confronti di Richard che supera l’immaginabile. Tramite sottili strategie la donna fa infatti terra bruciata intorno al marito, mal tollerando la presenza pure della propria madre e sorella putativa, e palesando poi una vera e propria patologia mentale nel lasciar annegare in un lago il fratello disabile di Richard. Dopo essersi provocata pure un aborto per terrore che il figlio nascituro le sottragga le attenzioni del marito, la donna, ormai sempre più preda della psicosi, si accanisce contro sua sorella Ruth e lo stesso Richard. Alla radice del disturbo di Ellen si accenna per vie implicite a un rapporto esclusivo e tormentato col padre defunto.

A distanza di settant’anni dalla sua prima uscita in sala Femmina folle stupisce ancora per la sua estrema modernità e intelligenza narrativa. Assistiamo a una vera e propria esplosione di tutti gli interdetti che tumultuano sotto la cenere di molti melodrammi, precedenti e successivi, provenienti dall’altra parte dell’Atlantico. Stavolta la psiche inquieta e torturata è la dichiarata protagonista, messa al centro di un racconto che appare prima di ogni altra cosa uno splendido ritratto di figura borderline ante litteram. Intendiamoci, il noir americano è famoso anche per la sua frequente misoginia più o meno esplicita, fitto com’è di virago che rivoltano uomini come calzini. Ma stavolta la protagonista non è mossa da sete di denaro e potere o da una qualsiasi ragione reale e contingente.
Stavolta Ellen è mossa da nient’altro che se stessa, da un’immotivata e insaziabile sete d’amore e attenzioni, tanto da prosciugare le esistenze di chiunque le stia vicino. Un pozzo senza fondo di affettività conquistate solo col ricatto morale e la menzogna, e che ha per scopo ultimo nient’altro che se stesso. Femmina folle porta soprattutto a estrema implosione gli elementi primitivi e costitutivi del modello occidentale. Quell’idea della coppia e famiglia fondata sull’amore romantico e sull’esclusività del rapporto come cellula fondante di tutta un’omologazione culturale.
In tal senso il film di Stahl si rivela sagace e crudelmente beffardo, dal momento che Ellen risulta semplicemente l’amplificazione fino alla patologia di quello stesso modello. L’unico suo interesse è dedicarsi al marito, non nutre più interesse per nessun altro, compresa la propria madre e sorella, delle quali accoglie le visite inaspettate con estremo fastidio. È la moglie perfetta, insomma, costruita con quell’idea di perfezione tutta americana di romanticismo e devozione. Solo che come ogni modello preso alla lettera Ellen è anche un mostro, progressivamente capace di mortali crudeltà per perseguire il proprio scopo fino all’ultimo.

Contestualmente Stahl conduce un lavoro estremamente intelligente sulle convenzioni del melodramma, a loro volta amplificate fino alle estreme conseguenze per rivelarne il rovescio oscuro e mostruoso. Perché proprio nella sua totale autoreferenzialità, lontana da interessi concreti e contingenti, la determinazione di Ellen appare come la versione esasperata e sfigurata dell’eroina romantica. Lei vuol amare e basta, non ha alcun altro scopo o finalità, e per lunghi tratti si esprime con un formulario ben noto al melodramma americano, che ricollocato in altro contesto narrativo non farebbe minimamente pensare a una pazza. Stavolta però il romanticismo rivela il proprio oscuro rovescio, ovvero un letterale atto di appropriazione di un essere umano condotto su un altro. Dietro i favolosi tratti del volto di Gene Tierney si agitano i fantasmi castranti dell’uomo occidentale, così come i riflessi di tutta una cultura misogina e sessuofobica. Così lo splendore del Technicolor, che non lascia mai posto a ombre e chiaroscuri, si mette al servizio di un capolavoro dove le ombre trovano posto soltanto dietro agli occhi, nei territori insondabili della psiche umana. Tanto insondabili e spaventosi poiché perfettamente umani, come dimostra l’encomiabile trattamento riservato al personaggio di Ellen, splendidamente moderno e in anticipo sui tempi. Ellen non appare mai un’irrecuperabile dark lady, bensì è raccontata come una credibile vittima di se stessa, che più volte rompe in lacrime ammettendo le proprie colpe. Certo magari non si può credere fino in fondo alle lacrime di una scaltra manipolatrice, ma il suo tormento psichico è altrettanto evidente, ben supportato dall’efficace prova attoriale di Gene Tierney. Perché Ellen vuol solo essere felice. Peccato che per lei non esista felicità senza la distruzione di chi le vuol bene. Imitazione della vita (per dirla con Sirk) di un’America e di un occidente usciti dall’incubo della guerra, per scoprire che le loro magnifiche sorti e progressive si fondano su uno smagliante modello con ultima stazione, l’orrore.

Info
La scheda di Femmina folle sul sito di Lab80 film.
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