Anna

Al triestino I Mille Occhi è stata presentata anche una copia in 16mm di Anna, il capolavoro di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, punto di svolta del cinema sperimentale europeo.

Vincenzo l’elettricista e il sogno della rivoluzione

1972. Massimo Sarchielli e Roland Knauss incontrano Anna, una minorenne che si aggira dalle parti di piazza Navona. Sarchielli e Grifi decidono di filmarla, ma i primi tentativi sono privi di reale autenticità. Fino a quando… [sinossi]

Anna chissà dov’è ora, che non è più una minorenne sbandata e incinta che se ne va in giro per piazza Navona, ha i pidocchi e viene presa in casa da Massimo Sarchielli e Roland Knauss, per quella che Alberto Grifi definisce come una scelta metà sceneggiatura metà opera filantropica. Anna è svanita, e non la frequentava più nessuno a partire da Grifi, svanito anch’esso nel silenzio ottundente di una cultura egemonica che ne ha sfruttato la malattia per qualche momento di gala – come l’imbarazzante serata all’Auditorium Parco della Musica quando venne proiettato In viaggio con Patrizia in una versione rabberciata, l’esatto opposto di un “director’s cut”. Non c’è più Anna, ed è rimasto Anna, il film “sperimentale” più famoso del cinema italiano, il caso per eccellenza di un sottobosco che viveva e respirava nonostante il soffocante peso della Cultura, quella con la c maiuscola che agitava la bacchetta nei ministeri e nei salotti di una Roma bene mai svanita, invece. Purtroppo. Tornare a riparlare e a rivedere Anna è un processo obbligato, una tappa indispensabile per dare senso a una rivoluzione, del cinema e dell’immagine, che fu possibile e forse lo è ancora oggi. Una rivoluzione, non una semplice evoluzione, atto gradito alla stessa industria. Anche per questo viene naturale applaudire la scelta de I Mille Occhi, il festival triestino diretto e pensato da Sergio M. Grmek Germani, che in un settembre mai così piovoso e uggioso ha presentato al pubblico giuliano Anna in una copia 16mm; destino forse un po’ bizzarro per un film reso possibile come tale solo dall’esistenza dei primissimi videoregistratori. La copia magnetica che combatte la sua personale guerra contro l’industria, dimostra come il flusso di immagine sia possibile, come la vita possa ancora essere parte del cinema senza stop, ciak, ripetizioni e battute da rivedere e correggere.
Tornare a rivedere Anna, quale che sia la forma che assume di fronte agli occhi (mille anche le versioni, come le rushes infinite che in molti, dalla Cineteca Nazionale al Torino Film Festival, hanno “mandato”), è un gesto di risveglio, spesso inconsapevole. Preoccupante oggetto difficile da maneggiare, sia per il bianco e nero che per la durata – divertente notare come si tratti degli stessi croma e minutaggio di The Woman Who Left di Lav Diaz, che tante controversie ha ingenerato nella stampa e negli addetti ai lavori a Venezia solo un paio di settimane fa –, il film di Grifi e Sarchielli è stato in fretta e furia trasformato in capolavoro da quella stessa intellighenzia che non alzò un sopracciglio quando Grifi fu arrestato, negli anni Sessanta, e nulla fece durante i suoi ultimi anni di vita, prossimi all’indigenza. Ma se Anna è un capolavoro, e ovviamente lo è, non è perché esula dalla norma, o perché ha il coraggio di mostrare una minorenne alle prese con una vita più grande di lei. No. Anna è un capolavoro perché ha il coraggio di detronizzare l’immagine dallo scranno intellettuale che la vorrebbe come elemento definito del quadro. Anna è un film in fieri, in continua negazione di se stesso. Un film che si riappropria di sé nel suo farsi, che riesce a darsi un senso solo quando capisce di doversi distruggere per ripartire.

Quella “metà sceneggiatura metà opera filantropica” altro non era che il senso di colpa malcelato di una borghesia che poteva permettersi il lusso di non considerarsi tale. Una borghesia che si agitava al di sotto dei già citati salotti bene, ma in realtà ambiva a prendere parte al medesimo desco. Una borghesia che è stata tratto peculiare di parte consistente della controcultura italiana, non a caso terminata anche quando si è spento lo spirito belligerante, lasciando posto a una più comoda tranquillità. Quando Vincenzo entra in scena non sposta solo il senso del film, da ritratto di una minorenne in fuga a ritratto di un’umanità in lotta. Quando Vincenzo entra in scena cambia gli equilibri di Anna, rimette in gioco la relazione tra le classi. Anna corre il rischio di essere oggetto in scena, con l’occhio entomologico della videocamera posato addosso; Vincenzo la libera da questo giogo, rivendicando un ruolo non solo a una categoria oscura e sempre in secondo piano (è l’elettricista del film, come informa una didascalia alla sua prima apparizione), ma alla classe reietta. La borghesia ciarliera che ha arricchito ma anche infestato il film nella prima parte, tra discussioni ai bar o in casa di qualcuno, viene ammutolita da un operaio. Un gesto magari retorico – e chissà quanto realmente improvvisato; dettaglio di secondaria importanza, a meno di scambiare ciò che è documento della realtà per cronaca della stessa – diventa la messa in scena di una teoria politica troppo spesso rimasta incollata alla bocca degli Autori.
Il videotape, come la moviola di La verifica incerta, è l’arma per bombardare una prassi che è dello sguardo e prima ancora di chi quello sguardo lo crea, lo codifica, lo blandisce. Il cinema come rivoluzione è sogno, se si eccettuano poche reali eversioni quasi sempre ricondotte in un letto meno burrascoso (su tutti ovviamente Sergej M. Ejzenstein, padre doloroso di un inno all’insubordinazione che venne mozzato dalla scure staliniana), ma un sogno di quando in quando possibile. In una casa romana, con una sedicenne abituata a passare di collegio in collegio e che finirà anche in manicomio, questa rivoluzione avvenne. Buttare all’aria una sceneggiatura didattica non è solo il modo di rifare cinema, ma il tentativo di scardinarlo, di uccidere quell’occhio impietosito che è il rigurgito mostruoso di un’educazione cristiana suo malgrado. La pietà deve essere sostituita dalla simpatia, dalla capacità di soffrire insieme, di essere insieme. Per far ciò è indispensabile che l’impianto piramidale della produzione venga smantellato, e che gli “schiavi” siano resi alla stregua dei poeti. Distruggere il Capitale (le sue fondamenta essenziali, di cui fa parte ovviamente l’idea di auteur al di sopra delle masse) a colpi di videoregistrazioni, con un sonoro ondivago, riprese spesso sfocate non per ghiribizzo artistico ma per necessità o meglio, per casualità.
Se Anna a distanza di quarantuno anni dalle sue prime proiezioni colpisce ancora in profondità non è perché la società italiana è rimasta la stessa, anzi. La verità è che quelle immagini proiettano ancora sulle pareti un sogno di rivoluzione che è l’istinto alla vita, che è la necessità di vivere fuori e dentro la scena. Non di recitare, ma di essere. Non di costruire, ma di testimoniare. Non di insegnare, ma di imparare. È didattica, Anna, ma lo è soprattutto per Grifi e per Sarchielli. Molto prima degli spettatori sono loro a imparare cosa significa fare politica, e quanto sia difficile e a tratti scomodo. Quando Anna telefonerà loro un paio di anni dopo da un manicomio pregandoli di salvarla, riusciranno solo a registrare la telefonata. La vita è cosa ben più difficile dell’arte, e assai più sgradevole. L’arte, se non soffre con la realtà, può trasmettere vita, ma non sarà mai vita.

Spaventoso atto di accusa contro un sistema (quello del cinema e dell’arte) così ramificato da essere cullato e coccolato tanto dal Capitale quanto da chi a parole lo combatteva, Anna travalicò i confini in cui solitamente era reclusa la “sperimentazione” e approdò là dove il cinema come potere si evidenziava con maggior forza, la Mostra di Venezia diretta all’epoca da Giacomo Gambetti. Il film arriverà poi anche a Berlino e Cannes, in un passaggio ai festival principali d’Europa abbastanza inusuale, ma questa è un’altra storia. Al Lido giunge per vedere il film buona parte di chi vi ha preso parte, e tra questi c’è anche Stefano Cattarossi, protagonista di un monologo ubriaco; è alticcio anche quella sera, Stefano, al punto che la polizia lo tiene fuori dalla sala perché “disturba la visione”. Sullo schermo arriva la sequenza che lo vede in scena, e il pubblico ride e applaude. Ma Stefano è fuori dalla sala, bloccato dalle forze dell’ordine. Una volta di più la palcidità borghese ha la meglio sulla vita; lo spettatore non partecipa ad Anna, lo sovrasta con il proprio sguardo. Lo spettatore è già oltre Anna, Vincenzo, Stefano e tutti gli altri. L’ha già catalogati, e applaude il fatto che qualcuno li abbia rinchiusi in un film. L’indignazione è l’anticamera della fine di qualsiasi lotta. Gesto rivoluzionario e opera d’arte nel senso più ampio e complessivo del termine, Anna non può però che perdere contro il sistema. Verrà inserito tra i capolavori, ovviamente, ricordato con compiacimento dai critici, anche quelli più a loro agio nel sistema, e tirato fuori all’occorrenza per dimostrare quanto lo sguardo si sia fatto aperto, libero, universale.
Anna fu un’utopia, come gran parte del cinema di Alberto Grifi, che arrivò anche a girare per la Rai film rimasti inevitabilmente invisibili (Michele alla ricerca della felicità e Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante), e la sua potenza ancora oggi così deflagrante deve essere rinchiusa nei musei. Il film lo metterebbero nei manicomi, se fossero ancora aperti e se accogliessero video. Ma non si può. Si è potuto però far sì che di Anna, la sedicenne non il film, si perdessero le tracce, e che Grifi morisse malato e solo, abbandonato al suo destino. Si è potuto far sì che il film venisse studiato e applaudito, come anche Lia, che in qualche modo è il suo gemello, o Transfert per camera verso Virulentia, con l’altro “appestato sociale” Aldo Braibanti; ma mentre questo accadeva quel mondo di cui Grifi faceva parte veniva distrutto pezzo per pezzo, massacrato dalla polizia in piazza, annientato con l’eroina tagliata male e venduta a poco, espulso dal contesto politico, ridotto a memorabilia. Il sistema ha vinto. Ma Anna, questo impossibile e straordinario film anti-film, resiste a suo modo. Non lo si recluda più nei festival, non lo si spacci “solo” per arte. Restituirlo alla vita, che è il suo luogo d’elezione, deve essere l’imperativo di tutti coloro che ancora credono al sogno di un cinema che non si limiti a riprendere la rivoluzione, ma la faccia.

Info
Anna, la sequenza con Stefano Cattarossi ubriaco.
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