Moo Ya

Il viaggio di un chitarrista cieco nell’Uganda “pacificata”, contrappuntato da testimonianze di sopravvissuti alle atrocità dell’LRA di Joseph Kony. Moo Ya di Filippo Ticozzi, in Italiana.doc al Torino Film Festival.

Memorie e sogni

Opio è un uomo cieco che vive in uno sperduto villaggio africano. Passa la maggior parte del suo tempo seduto, ascoltando la propria terra, colma di mistero e dal passato sanguinoso. Un giorno, senza un motivo apparente, decide di partire. [sinossi]

Moo Ya, è lo stesso Filippo Ticozzi ad affermarlo, non ha una traduzione chiara: potrebbe far riferimento a uno spirito, ma forse anche no, e inquadrare qualcosa di assai più materiale. Una materia ondivaga, dunque, un termine dalle valenze plurime, una parola che acquista una significato diverso ogni volta che la si pronuncia, a seconda da chi la pronuncia. Un titolo perfetto, a ben vedere, per questo viaggio che è documentario nell’accezione più ampia del termine, perché documenta. Documenta una realtà, ovvio, ma non la semplifica agli occhi dello spettatore. Documenta la volontà di uno sguardo, soprattutto, la necessità di porsi di fronte a un mondo e non assumerlo come tale, ma cercare di ri-vederlo. Per questo Moo Ya, pur essendo girato in Uganda, non concede allo spettatore nessun punto d’appiglio reale per accorgersi della sua contestualizzazione geografica. Una scelta estrema, forse anche discutibile, ma che propone con forza lo sguardo di Ticozzi. L’Uganda di Joseph Kony, che ha condotto una guerra civile a capo dell’LRA con grande sfarzo d’atrocità, tra mutilazioni genitali, stupri, squartamenti ed esecuzioni sommarie, oltre al tristemente celebre arruolamento di bambini soldati, diventa un non-luogo, un immenso spazio dominato dalla savana ma accompagnato dal Nilo, il fiume/Africa, il senso stesso di un continente che è una delle culle della civiltà tutta.
Se lo spettatore resta ignaro della collocazione geografica del film, potendo solo contare su qualche vago riferimento temporale e (se lo si conosce) sul dialetto swahili parlato dagli acholi, l’etnia più rilevante dell’Uganda ma anche quella paradossalmente più martoriata dalla guerra intestina che ha insanguinato lo stato, questa scelta permette a Ticozzi di evitare qualsiasi tipo di sovrastruttura mentale coloniale. Rifuggendo il pietismo che con troppa semplicità viene utilizzato per leggere la storia dell’Africa (inteso come corpo unico, a sua volta semplificando dunque una realtà ben più frammentata e composita), il regista pavese si muove su un duplice binario: da un lato un viaggio – di cui si scriverà tra poco – e dall’altro una serie di narrazioni di ciò che fu, della tragedia vissuta.

I due blocchi, che si intersecano tra loro in una sorta di ideale campo controcampo, sono rappresentati in modo a sua volta contrapposto. Nel seguire il peregrinare per la nazione di Opio, cantante e musicista cieco, Ticozzi sfrutta le potenzialità espressive del road-movie, sradicandolo però dal concetto di reale propriamente detto per ricondurlo in un’ottica più prossima al deliquio onirico, tra continui sonni e risvegli. Da Kampala a Gulu, nel profondo nord del paese e non troppo distanti dal confine con il Sudan del Sud, Opio si muove ora a piedi ora in motocicletta (come passeggero, ovviamente) ascoltando la radio e suonando la chitarra, improvvisando un piccolo concerto ma soprattutto scorrendo a sua volta in una nazione che per il resto è costretta ad avanzare per non subire il peso di una memoria alla quale sarebbe arduo riuscire a sopravvivere.
Quella memoria irrompe però in una serie di testimonianze, partecipate e sofferte, di chi è sopravvissuto alla guerra, e dei ricordi traumatici che ancora porta su di sé, metaforicamente e non. Le cicatrici come verità. Le cicatrici come prova concreta dell’aver vissuto, dell’essere esistiti, dell’essere. Mentre il viaggio di Opio procede come un lungo dipanarsi della stessa camera, sguardo che si fa da attratto attrattivo – e in questo sta forse il principale pregio del film, e della messa in scena di Ticozzi –, la staticità delle testimonianze rischia di apparire troppo costruita, per quanto il rispetto del tempo del discorso (nessuno degli interventi è interrotto dal montaggio, ma procede seguendo l’eloquio e la scelta del tempo di chi sta parlando) sia sicuramente apprezzabile, e dimostri una volta di più l’etica alla base del progetto.

Tra il fantasmatico e il reale, tra il sogno e la veglia, Moo Ya cerca con sguardo straniero, alieno ma mai alienato e partecipe senza risultare retorico, di viaggiare prima ancora di comprendere. Di viaggiare perché è l’unico modo per comprendere. Nello sguardo di Ticozzi non si avverte mai il peso di una scelta precostituita, ma allo stesso tempo si percepisce la volontà di non accettare la prassi, e di non subire il paesaggio geografico e culturale, ma di rielaborarlo, ricostruirlo nella propria mente. Sognarlo, forse. Un’opera quasi immateriale e a suo modo preziosa, di non facile fruizione ma dotato di grande potenza immaginifica. E di una verità che è sempre in divenire. Come il letto del Nilo.

Info
La scheda di Moo Ya sul sito del TFF.
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