Sadie

Compendio di ossessioni “per procura”, dalla messa in scena artificiosamente elaborata, Sadie si rivela un’opera stanca e derivativa, priva di uno sguardo personale e di una vera urgenza espressiva. Al Torino Film Festival.

La villa del già visto

Giunta a Torino con lo scopo di presentare il suo ultimo romanzo, la scrittrice Sadie Glass viene avvicinata dal suo ex fidanzato Alex, che le propone di passare con lui un weekend in un’isolata villa in campagna. La donna, scossa dalla crisi col suo attuale compagno Thierry, accetta la proposta, a patto di essere accompagnata dall’appena conosciuta Francesca, giovane attrice. Il soggiorno nell’isolata residenza diverrà presto, per Sadie, un viaggio nelle proprie ossessioni, tra sesso, droga e pericolose pulsioni… [sinossi]

Era quasi naturale, la scelta di una vetrina come il Torino Film Festival, per l’anteprima mondiale di questo Sadie, opera seconda del regista Craig Goodwill (al suo attivo, finora, l’inedito Patch Town, datato 2014). Una scelta quasi naturale non solo per il contributo della Torino Piemonte Film Commission alla realizzazione del film (co-produzione italo-canadese) ma soprattutto per un’ambientazione che sfrutta in modo intensivo, traendone gran parte delle sue suggestioni, le peculiarità delle location del capoluogo piemontese, e in particolare quelle del suo hinterland, sede della lussuosa, isolata villa in cui si svolge gran parte dell’azione. Thriller a sfondo erotico, con al centro una vicenda di ossessione, senso di colpa e pulsioni rimosse, il film di Goodwill sembra fin dall’inizio voler far conto sugli umori di una Torino notturna, in egual modo ammaliante e minacciosa, catturata dai chiaroscuri dell’efficace fotografia dell’italiano Davide Ungaro. Un setting urbano che muove presto verso l’isolamento della dimora in cui ha sede il triangolo al centro della storia, luogo che diverrà punto di deflagrazione di fantasmi veri o immaginari, di pericolose e mai sopite ossessioni.

Punta in alto, nei suoi riferimenti, il film di Goodwill, nutrendosi in modo palese di suggestioni che spaziano dalla malia esoterica dell’Eyes Wide Shut kubrickiano alle ossessioni agorafobiche di Shining, passando per la frammentazione narrativa e il costante gioco cinematografico sul crinale tra realtà e allucinazione figli del cinema di David Lynch. Un catalogo di riferimenti che il film ripropone però nel modo più scolastico e risaputo, con l’evidente pretesa che basti saper rimasticare (nobili) suggestioni altrui, ponendole in un contenitore esternamente ben confezionato, per produrre un’opera cinematografica degna. Il regista canadese si profonde, per tutta la prima parte del film, in morbidi piani sequenza ad esaltare i multiformi interni della villa, con le sue vere o presunte presenze, nonché a sottolineare l’isolamento dei tre protagonisti e il sottile gioco di oppressione/dominazione che lentamente si stringe intorno al personaggio interpretato da Analeigh Tipton. Il problema è che un coté visivo così elaborato e sovraccarico appare fin da subito gratuito, slegato da qualsiasi necessità narrativa e maldestramente ripiegato su se stesso; specie laddove l’ossatura del racconto risulta al contrario lineare e persino scarna. Quella narrata dal film appare di fatto come una vicenda dai contorni già visti, artificialmente caricata di poco digeribili simbolismi.

Il chiacchierato carattere hot del film si riduce ad una singola sequenza che coinvolge il personaggio della Tipton e quello della comprimaria Anna Gastini (che, con la sua obliqua interpretazione, risulta decisamente più efficace della protagonista); mentre l’intera impalcatura della storia, montata su un assunto fin troppo pretestuoso, mostra fin dall’inizio tutte le sue falle. Il problema principale di Sadie sta nella sua smaccata pretenziosità, che si rivela direttamente proporzionale sia all’esilità dello spunto di base, sia al modo farraginoso in cui questo viene sviluppato; il fascino magnetico della location, fin dall’inizio ricercato ed insistentemente invocato dalla macchina da presa del regista, si svuota presto da ogni senso e funzionalità narrativi, innestandosi su un soggetto dai tratti tanto stereotipati. L’occhio viene catturato nel modo più semplice dai labirintici interni della dimora e dai totali che ne esaltano l’isolamento, ma l’inconsistenza del dramma che vi si svolge smorza costantemente il loro potenziale evocativo. Si resta perennemente in attesa di un twist narrativo, di una qualche svolta che restituisca senso e pregnanza a un’estetica tanto laccata e debordante quanto poco contestualizzata; e si resta, parimenti, quasi increduli quando lo script, nei minuti finali del film, prende esattamente la direzione che si era temuta.

Catalogo di ossessioni per procura, fintamente carnale quanto maldestramente derivativo, Sadie appare come un perfetto compendio del modo in cui non realizzare un film sulla scia di modelli illustri e (mal) digeriti. Quello che manca, al regista canadese, sembra essere proprio uno sguardo personale sul genere, ma ancor più una vera (e valida) storia da raccontare. Il modo stanco in cui porta avanti una vicenda piatta quanto pretenziosamente torbida, sembra rivelare che, in fondo, nel progetto non ha creduto più di tanto neanche lui.

Info
La conferenza stampa di Sadie al Torino Film Festival.
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