Intervista a Christopher Doyle

Intervista a Christopher Doyle

Australiano d’origine, il direttore della fotografia Christopher Doyle ha mosso i suoi primi passi nel cinema orientale, divenendo un cardine della New Wave di Hong Kong, collaborando con Patrick Tam e Wong Kar-wai. Ma ben presto anche il cinema americano si accorge di lui e lavora perciò anche per Gus Van Sant, M. Night Shyamalan e Jim Jarmusch. Abbiamo incontrato Christopher Doyle al Torino Film Festival, dove gli è stato assegnato il Gran Premio Torino.

Christopher Doyle ci riceve con una bottiglietta di birra in mano e vuole fare una premessa per spiegare l’origine della sua vicinanza culturale con l’Italia e la sua conoscenza, lui che è poliglotta, anche di alcuni vocaboli nella nostra lingua.

Christopher Doyle: Sono cresciuto con dei vicini italiani perché negli anni Cinquanta, durante la mia infanzia in Australia c’erano tantissimi immigrati italiani e greci, soprattutto nella costa orientale, e mio padre quando andava a fare benzina cantava sempre le arie dell’opera italiana.

Ricordo una conferenza stampa di anni fa in cui Wong Kar-wai…

Christopher Doyle: Chi?

… Wong Kar-wai, che presentava 2046. In quell’occasione raccontò di un tuo modo bizzarro di concepire la fotografia di un film, e cioè che mentre leggi le sceneggiature ti metti a ballare e così trovi l’ispirazione. Ma è vero? E come funziona esattamente questo procedimento?

Christopher Doyle: Sì, è vero. Ed è per questo che mi piace avere sempre una macchina da presa in mano, perché mi tiene sveglio, ma anche perché mi permette di avere un rapporto più stretto e più intimo con il mio pubblico. È tutta un’energia, è chi come diciamo noi in cinese, con il termine da cui deriva anche la parola tai chi. Siccome non ho frequentato nessuna scuola di cinema, lavoro così, in maniera naturale, sono quello che sono in maniera naturale, e io nella vita ballo. È per questo che si parla di danza. Ballavo in passato, ho ballato anche in un locale con Pina Bausch, una persona straordinaria e bellissima. A me piace muovermi, essere in movimento. Mi reputo davvero fortunato nella vita, perché quello che faccio nel mio lavoro è pensare in piedi, proprio come fanno gli atleti, gli sportivi o appunto i danzatori. Ed è proprio come ballare. Si condividono le idee, attraverso la luce, lo spazio fisico, e se tu lo fai con il chi, con l’energia, allora riesci a capire le fragilità, le paure, a capire dove devi andare. Sono tutte cose che vanno abbracciate, perché come nello zen l’arciere deve imparare a tirare la freccia senza pensare all’arco, così devi imparare la tecnica e poi la devi dimenticare. È un viaggio, devi fidarti di te stesso, è un impegno. Devi credere a questo impegno, e se segui questo processo, a quel punto è come ballare, come cucinare per la propria famiglia.

Con te la concezione della fotografia al cinema ha fatto un salto avanti, hai saputo concepire un nuovo linguaggio. Cosa ti guida nella tua ricerca cinematografica?


Christopher Doyle:
Come si crea la bellezza? È come il sesso, si fa un bambino, anche il film è un bambino. E si spera sia il più bello possibile. E bisogna scegliere le persone con cui fare il bambino. Ma sfortunatamente talvolta non sono così belle queste persone, ci deve essere dell’eros. In un film avevo otto miss Hong Kong, otto attrici che in realtà non lo erano, che fingevano di saper recitare, ed è stata una stronzata pazzesca. Però il regista era un mio amico, e quindi cosa potevo farci? Cosa fai in questi casi? Il film è una stronzata e gli attori sono cani? Fai diventare il film bellissimo, è il minimo che puoi fare. Renderlo interessante da vedere. Per me la bellezza è nelle persone, deve essere così. E io vedo solo tre persone fondamentali nel cinema: la persona che sta davanti la macchina da presa,  cioè l’attore, il veicolo con cui si parla al pubblico; il pubblico stesso e, terzo, io, il direttore della fotografia, colui che è chiamato a star vicino agli attori stessi. È bellissimo, un privilegio, quello di condividere, di poter fornire un’idea di fiducia, in questo modo si crea il legame e anche il pubblico riuscirà a sentire e a provare qualcosa. Ma… mai tornare a casa con un’attrice. Non è una bella idea, non ti aiuta. L’ho fatto solo una volta, mi spiace deluderti, ed è stato un disastro. Fai riprese tutto il giorno e poi litighi tutta la sera. “Perché non mi hai fatto più primi piani?” Ho soltanto tre primi piani, all’altra ne hai dati di più”, quindi non è una buona idea tornare a casa con un’attrice.

Sei australiano, hai contribuito a fare grande il cinema di Hong Kong e ora lavori tanto sia con registi occidentali che orientali. Ti senti un crocevia tra il cinema orientale e quello occidentale? Oppure adotti approcci diversi a seconda di dove è prodotto il film?


Christopher Doyle:
Inizio rispondendoti che mia sorella è una suora dell’Opus Dei, sono cresciuto da cattolico. Peraltro il Papa mi telefona tutti i giorni [ride per la battuta, n.d.r.] ed è per questo che mi sento così a mio agio qui in Italia. Fantastico il film di Nanni Moretti, Habemus Papam, l’ho adorato. Ho viaggiato tantissimo, a 18 anni sono partito dall’Australia. L’ho lasciata e ho iniziato a viaggiare su grandi navi mercantili, delle navi cargo, e sono arrivato in Israele, ad Amsterdam, in India e poi ho studiato il cinese, perché ero stufo d non saper parlare un’altra lingua. Perciò mi domandai: quali sono le lingue più importanti, più diffuse? L’inglese che conosco, e poi lo spagnolo, l’arabo e il cinese e ho optato per quest’ultima. Mi iscrissi così alla Chinese University di Hong Kong, avevo un’insegnante bellissima, una poetessa che mi ha dato un nome cinese, Du Kufeng, “Come il vento”. Per questo il documentario su di me si intitola Wind. È stato questo tizio, Du Kufeng, che ha fatto tutto il lavoro, e lui pensa che quest’altro tizio, Christopher Doyle, sia un pezzo di merda. Tutto è un dialogo tra me e l’altro. Perché Du Kufeng è cinese mentre io sono nato nella casa dell’Opus Dei. Ma è grande! Perché è proprio l’equilibrio quello di cui c’è bisogno. Perché da artista devi essere soggettivo. Michelangelo che dipinge la Cappella Sistina, scende e dice “È una stronzata”, e poi ritorna su. Questo è il nesso tra soggettivo e oggettivo. L’impegno, la soggettività e l’affetto per il proprio luogo d’origine sono caratteristiche del mondo cinese, mentre Christopher Doyle è nato cattolico, è nato australiano ed è oggettività. Con questo equilibrio sono riuscito a raggiungere questa arte. Quando scrivi è lo stesso. Devi credere a una parte di quello che dici, ma poi devi comunque operare un giudizio. Per questo sono diventato schizofrenico, come se continuassi a dipingere la Cappella Sistina e a tornare indietro. Questo è grande. Ma ho ancora molto di cattolico in me, ed è noioso. I cinesi non sono cattolici e, quando lo sono, non lo sono come noi. Se pensi alla fotografia nel cinema, è lo stesso. Tra i miei colleghi, gli ultimi due premi Oscar per la migliore fotografia sono andati a un messicano [Emmanuel Lubezki, n.d.r.]. Cosa possiamo dire di questa influenza americana? L’importante è tenere questa distanza, ma continuare a essere impegnati in quello che si fa. Stasera sono molto orgoglioso di ricevere questo premio, ma devo sempre continuare a lavorare duramente.

Nel tuo lavoro trai ispirazione dalla pittura? È vero che ti consideri il Turner del cinema?

Christopher Doyle: No, no, no! Mi sento il Keith Richards della cinematografia. Non ho mai fatto questa affermazione su Turner. Non c’era la nebbia a Londra prima che Turner la dipingesse, nessuno ha mai visto i girasoli prima che li ritraesse Van Gogh ad Haarlem. Noi dobbiamo fare il nostro lavoro che è quello di rendere il mondo visibile in una maniera nuova, come non era mai stato visto prima. Bisogna guardare questo spazio e deve essere tutte le volte una cosa nuova, una maniera diversa di mostrare il mondo che ci circonda. Per esempio ho realizzato dieci film in due chilometri quadrati, a Hong Kong dove, tra gli altri, abbiamo girato anche Hong Kong Express e tutte le volte vi colgo un’energia completamente nuova, sempre diversa. Quindi è un equilibrio tra soggettività e oggettività. E bisogna avere nuovi occhi per guardare all’interno di questo altro spazio come fa David Hockney. Per esempio due giorni fa ero in Polonia, ho girato un film. Non conoscevo la Polonia, non parlo polacco. Però la gente del luogo mi ha detto: “Non conoscevo Varsavia come l’hai dipinta tu”. È stato un grandissimo complimento per me, perché è proprio quello che cerco. Dare bellezza alla vita, una bellezza nuova, che non è Miss Italia. È l’integrità del colore, il piacere dell’odore, il profumo. Come il vino, come un bouquet, il piacere che questo ci trasmette. Quindi non l’è essere carini, ma essere impegnativi, coinvolgenti, e significa avere gli occhi per guardare il mondo e celebrare la vita. Io non voglio sapere come è stata realizzata quella cosa, sia essa in Hunger o in Blue di Derek Jarman, mi interessa la sensazione che provo. Sono stato a Cuba tantissime volte, non mi interessa capire qual è stato l’hotel dove è stata girata una certa scena di Soy Cuba, né mi interessa capire come è stata girata quella scena, a me interessa la meraviglia di quell’immagine. Non mi ricordo come ho fatto In the Mood for Love, ma neanche mi interessa. Per me quel film è stato un viaggio. Si possono anche sfruttare gli errori. Quando lavoravo ad Angeli perduti di Wong Kar-wai, capitò che un giorno ci accorgemmo che tutta la pellicola che avevamo a disposizione per una certe giornata si era deteriorata, non si sa perché, forse qualcuno aveva aperto la macchina, insomma qualcosa era andato storto. Comunque dovevamo per forza girare, perché c’erano degli attori che erano stati scritturati solo per una giornata e poi non potevano tornare. Così avevamo quelle immagini molto sbiadite e annebbiate. Allora ho detto: “Facciamolo stampare con un altro contrasto in bianco e nero e vediamo cosa esce”. E il risultato era davvero ottimo. A quel punto ho detto a Wong Kar-wai: “Però adesso non possiamo tenere una sola scena in bianco e nero, mettiamone altre di queste scene così poi diranno che è una scelta stilistica. Vedrai che tutti saranno innamorati di questa nostra cosa”. E infatti a Cannes fu molto amata questa scelta di stile. Quando invece ho lavorato con M. Night Shyamalan, in Lady in the Water, tutto era talmente tanto preciso che non c’era assolutamente spazio per riuscire a cogliere il profumo delle cose. Come se ci fosse troppo sale nel pesce. Come ultima scena di The Limits of Control di Jim Jarmusch, quando si vede il treno che lascia la stazione, io ero lì, appeso a una scaletta, e dovevo seguire l’attore con la mia camera, e a un certo punto cado da questa scaletta. È stata la scena preferita in assoluto di Jarmusch, che mi ha detto: “Scommetto che l’hai fatto apposta”. Ma ero davvero caduto. Si tratta quindi di abbracciare, ammettere, amare gli errori che si compiono. Sono stato molto felice quando Bertolucci mi ha definito l’anti-Storaro. Io amo Vittorio ma lui ama Goethe e io non sono d’accordo.

Con Psycho di Gus Van Sant hai dovuto creare il colore per un classico di Hitchcock in bianco e nero, in un remake ricalcato sull’originale. Come hai lavorato?

Christopher Doyle: È stato il mio primo film in Occidente. Era per la Universal e avevamo a disposizione una gran quantità di materiale di scena del film originale che poi abbiamo ricostruito tutti insieme, il motel per esempio. Però è a colori. E quindi il mio lavoro è stato solo quello di cercare i colori giusti.

Info
La pagina Wikipedia dedicata a Christopher Doyle.

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