Port of Call

Port of Call

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Un turpe omicidio, un detective disilluso, la bellezza struggente delle immagini fotografate da Christopher Doyle. Sono gli ingredienti di Port of Call di Philip Yung. Al FEFF 2015.

Please, kill me

Wang Jiamei, arriva a Hong Kong nel 2009, attraverso la città cinese di Dongguan, per raggiungere la madre e la sorella, che vivono in una casa popolare. Ben presto, a soli sedici anni, Wang lascia la scuola per fare qualche lavoretto come modella e in un McDonald’s, per poi finire in un giro di incontri a pagamento. Non vivrà abbastanza da festeggiare il suo diciassettesimo compleanno. [sinossi]

Malinconia e furore, lacrime e pallottole, l’azione più turbinante che si sposa con il melodramma più roboante: l’action hongkonghese possiede una varietà di ingredienti forti e contrastanti, che lasciano sempre il segno. Si orienta nettamente su un versante crepuscolare e meditabondo Port of Call di Philip Yung (May We Chat), più un mistery d’amosfera che un action, anche perché quando il film ha inizio, l’esito della sua storia è già noto. Non resta che scoprirne le cause. Tratto da un reale fatto di cronaca che ha scosso Hong Kong nel 2009, Port of Call è la storia della sedicenne Wang Jiamei (Jessie Li), aspirante modella prestata alla prostituzione, improvvisamente scomparsa nel nulla. La ragazza è stata uccisa e il suo corpo smembrato a tal punto da risultare irreperibile. A confessare l’orrendo delitto è un corpulento camionista e il suo movente è a dir poco inquietante: a chiederglielo era stata la vittima stessa.

Ha inizio così una complessa e frammentaria indagine che vede protagonista il dimesso detective Chong (Aaron Kwok), una sorta di nerd cresciuto dentro ai suoi vestiti sciatti e a quegli occhiali da vista rimasti comunque troppo grandi, sempre pronti a scivolargli giù dal naso. Nessuno scommetterebbe sul suo acume, nemmeno lo spettatore, ma la sua determinazione è implacabile e ossessiva e al suo fianco si penetra inesorabilmente nelle radici più tetre di questa vicenda.
Yung frammenta la narrazione in un susseguirsi di flashback, che di fatto non sembrano appartenere a nessun personaggio in particolare, non si tratta infatti di una struttura a incastri né di un mero gioco enigmistico, quello che osserviamo sono i lacerti di una vita fugace ed effimera, quella della vittima, osservata con uno sguardo quasi documentaristico. Siamo infatti immersi nella cronaca nera e al tempo stesso in uno squarcio della dolente quotidianità della gioventù hongkonghese contemporanea, iperattiva eppure depressa, la cui voglia di farcela, di sfondare, va a braccetto con un’insopprimibile pulsione di morte. È interessante poi vedere come l’emarginazione della ragazza sia in qualche modo acuita dalle sue origini cinesi: una continentale ad Hong Kong è di fatto una provinciale e come tale viene trattata. La talentuosa Jessie Li tratteggia con cura e sensibilità il carattere complesso e contraddittorio della post-adolescente Wang Jiamei: ora in grado di esprimere la vivacità che è propria di una sedicenne, ora profondamente avvilita da innumerevoli, piccole sconfitte. A fare da degno corollario alla sua storia c’è poi quell’unico lavoro ottenuto (o almeno l’unico che vediamo noi), ovvero una pubblicità progresso sulla violenza contro le donne assume i toni di un fosco presagio. E’ dunque una sceneggiatura di grande raffinatezza quella di Port of Call, in grado di stare perfettamente in bilico tra realtà e piacere del racconto, tra una realtà sfuggente, in perpetuo divenire, e la sua organizzazione narrativa.

Non c’è molta azione in Port of Call, ma la violenza è esplicita e cruda, così come la sessualità; il melodramma stritola poi la protagonista in una morsa letale, mentre la fotografia firmata da Christopher Doyle (In the Mood for Love, Paranoid Park, Last Life in the Universe) fa di questo avvenente e aggraziato “angelo perduto” un vero e proprio agnello sacrificale. Le immagini catturate da Doyle sono di una bellezza struggente, a tratti ci appaiono un po’ orfane della pellicola, ma sempre avide di sperimentazione. La nostalgia per i colori caldi e la texture pulviscolare del 35mm emerge in particolare in una sequenza in cui delle diapositive vengono proiettate sul volto del detective Chong alla stazione di polizia: restituendo così all’immagine – seppur in forma indotta – una patina di grana, allora forse non tutto è perduto.

INFO
La scheda di Port of Call sul sito del Far East Film Festival 2015
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