Intervista a Peter Greenaway
Cineasta eclettico, portatore di una ricerca estetica spasmodica in un percorso attraverso le varie forme d’arte, pittura, architettura, videoinstallazioni, il britannico Peter Greenaway mette in discussione da tempo, con la sua attività e con le sue posizioni teoriche, la concezione stessa di cinema, quella tradizionale, e i suoi confini. Abbiamo incontrato Peter Greenaway al Biografilm Festival di Bologna, dove è stato insignito del Celebration of Lives Award 2017 e dove ha tenuto una masterclass.
Nel tuo film recente Eisenstein in Messico ti rapporti con la figura del grande formalista sovietico. Mentre la sua concezione vedeva il montaggio cinematografico come il principio unificatore di tutte le forme d’arte. Nella tua carriera hai invece perseguito l’ibridazione, la commistione di cinema, pittura, architettura, videoarte. Sono due posizioni conciliabili?
Peter Greenaway: La mia disciplina si è affinata avendo iniziato la mia carriera nel montaggio cinematografico e dei video. La cosa mi dà tuttora una grande eccitazione per via dell’immediatezza del lavoro, di toccare immediatamente la materia, di lavorare come fa un pittore considerando l’esercizio della pittura, con forse l’unica eccezione di Gilbert & George, come un qualcosa di solitario in cui prevale la soggettività di un unico autore e questo si avvicina con il concetto di autorialità cinematografica, concetto che tuttavia nel cinema mainstream non esiste perché c’è un consorzio enorme che mette insieme una squadra di lavoro dove la soggettività del singolo non è più individuabile. Si crea tutto un vocabolario che ha a che fare con la danza, con la pittura, con la calligrafia, con la tipografia, con tutta una serie di discipline che appartengono al passato, al presente e si spera al futuro, nel tentativo di elaborare il concetto che le forme d’arte possano combinarsi e abbinarsi con un’iniezione di energia che possa dare vita a una forma di cinema. Un artista in modo quasi incestuoso parla di opere d’arte riferito a se stesso. Tutto è cominciato anni fa, da quando vivo ad Amsterdam e, affacciandomi da casa mia, vedo il Rijksmuseum, dove sono conservate le opere di Rembrandt, in particolare quello più celebre, la Ronda di notte. E ho un biglietto che mi consente in qualunque momento della giornata, essendo membro onorario del museo, di visitare i suoi dipinti. Rembrandt è nato nel 1606 e nel 2006 l’Olanda ha celebrato in tutti i modi l’anniversario della sua nascita. Sono state allestite in tutto il paese una serie di mostre, una su Rembrandt, una sulla mamma di Rembrandt, una sul cane di Rembrandt, una sulle pulci sul dorso del cane di Rembrandt. E hanno chiesto a me di realizzare – conoscendo la mia passione per il chiaroscuro e associandola all’utilizzo del chiaroscuro che Rembrandt fa nelle sue opere pittoriche – un’opera che in qualche modo enfatizzasse questo nostro tratto visivo comune. Una possibilità di lavorare sulla luce e sulle ombre delle situazioni drammatiche della nostra vita. Ho detto loro: “Accetto molto volentieri questa sfida, ma sappiate che la mia domanda è molto elevata perché quello che voglio fare è proiettare sul quadro vero della Ronda di notte, non su una riproduzione, un film”. Il desiderio che è nato in me fa parte della riflessione sulla tristezza della nostra cultura visiva contemporanea, dove i filmmaker non dialogano con i pittori e i pittori non dialogano con i filmmaker. Cerchiamo di fare questo dialogo. Rembrandt è morto 350 anni fa, ma possiamo parlare con le sue opere, anche in modo intimo. Noi viviamo nella società dell’immagine, in cui in teoria tutto quello che è cultura visiva dovrebbe essere coltivato, ma in realtà non è in alcun modo praticato, perché sembriamo sempre vertere – anche nelle forme artistiche – sulla parola e sul dialogo. Per gli olandesi Rembrandt è un autore venerato e la Ronda di notte, dopo la Gioconda, l’Ultima cena e la Cappella Sistina è senz’altro il dipinto più famoso e più celebrato al mondo. Ed è il primo dipinto ad avere come soggetto noi fondamentalmente, cioè la società borghese. Siamo ancora dei borghesi ed è stata la prima volta, con Rembrandt, che un pittore ha rivolto lo sguardo a un soggetto che non fosse religioso. Fino ad allora l’arte era stata appannaggio della Chiesa con tutte le sue posizioni di privilegio, di tirannia, oligarchia e di dittatura. Invece è il mondo borghese cui tutti noi apparteniamo oggi che diventa qui in Rembrandt l’oggetto della pittura, una forma primitiva di democrazia, quella che il signor Trump sta cercando oggi di distruggere. Quindi io ho detto a chi mi commissionava questo lavoro che puntavo molto alto e chiedevo loro di darmi questo dipinto. Per questo dipinto non esiste cifra che lo possa assicurare, è inassicurabile da tutte le compagnie del mondo. Non può essere di fatto spostato da dove si trova. Per avere un’idea, nel 1946-47-48, l’Olanda aveva contratto un elevato debito di guerra nei confronti degli Stati Uniti, quantificato a seguito del Piano Marshall. E il presidente americano aveva detto agli olandesi: “Se ci date la Ronda di notte, vi cancelliamo il debito”. E loro si sono rifiutati di farlo. Quindi ha anche un significato importante sul piano politico, appartiene alla loro vita. Usano questo termine “gezellig” che ha a che vedere con la vicinanza, la solidarietà domestica, la convivialità. Ovviamente lavorando su questo dipinto sono stato costretto a lavorare di notte, perché il museo restava aperto di giorno. Cosa che ho fatto per 16 settimane, applicando una tecnologia che avevo sviluppato allo stato dell’arte, che mi consentiva di fotografare, millimetro per millimetro, ogni singolo frammento del dipinto per vedere quanti colori fossero utilizzati in ogni punto della tela. Parliamo di 30 milioni di gradazione dei colori, lo sappiamo dai nostri laptop, malgrado i nostri vocabolari siano molto più limitati per descrivere tutte le sfumature. In inglese solo una cinquantina di termini nel vocabolario indicano i colori. Mettendoli in correlazione con i colori primari, il rosso, il blu e il giallo. Sono riuscito a effettuare questa proiezione con il film che, a quel punto, attraverso tutta una manipolazione di riflessi della proiezione sul dipinto, di fatto convertisse in pixel ogni punto d’impatto del raggio della fonte di luce e dando la sensazione di variazione costante, di animazione di questo quadro che è diventato in movimento, un’illusione di movimento. Il resto del mondo non esisteva più. Potevo modificare i colori e il chiaroscuro. Nell’esaminare talmente bene questo dipinto, nelle 16 settimane in cui ci ho lavorato, ho scoperto che all’interno si nasconde anche un omicidio. Rembrandt non era uno scrittore, aveva il suo modo di raccontare la società. E l’accusa è proprio quella di occultare i delitti, data la presenza di questo dettaglio nel quadro. Un’accusa nei confronti di una società che si vuole democratica già all’epoca. Quindi la pittura è usata come strumento di denuncia sociale e politica della corruzione. I pittori sono testimoni dei loro tempi. Questo mi ha portato a un’altra riflessione, quella che la Storia non esiste, esistono soltanto degli storici che scrivono, usano le parole, non le immagini, e ci raccontano delle storie che si inventano. Sono tutte delle bugie. Il primo a mentire è stato Giulio Cesare, l’ultimo di rilievo storico è stato Winston Churchill, un grande scrittore ma anche un bugiardo. Ci hanno raccontato con capacità dialettiche straordinarie una serie di bugie. La Storia è una branca della letteratura. È nato in me il desiderio di riflettere su quello che è lo strumento che l’arte può utilizzare nella sua riflessione sulla società, sulla posizione degli artisti nella società. E quindi ho dimenticato questa pretesa narcisistica che ogni artista ha di definire le proprie opere d’arte. E ho iniziato a riflettere sulla pittura, occupandomi di Vermeer, l’altro autore importante per gli olandesi, con Writing to Vermeer Dutch National Opera. Ho fatto dei film su Mozart, come il corto M Is for Man, Music, Mozart. E poi è giunto il momento di fare una riflessione sul mio mestiere, quello di cineasta. Ho scelto come soggetto Ėjzenštejn che è stato in realtà lo strumento di propaganda sovietica utilizzando dei ritrovati assolutamente innovativi e freschi, che ha realizzato un film come Sciopero che è diventato una pietra miliare nella storia del cinema a solo 26 anni, prima del famoso La corazzata Potëmkin. Avevo già fatto un film con una riflessione sul cinema dal momento che il più grande film sul cinema mai realizzato è 8½ di Fellini, io avevo fatto Otto donne e ½ come omaggio. Sul cinema la mia riflessione si è articolata su due dei più grandi autori. Essendo la Russia piuttosto omofobica, Putin, che odia gli omosessuali, non è stato felice di scoprire che anche Ėjzenštejn è stato omosessuale come Čajkovskij, motivo per cui sono persona non grata in Russia, non godo di grande popolarità e per il momento mi hanno consigliato di non andarci. In realtà persone che conosco in Russia non hanno problemi con la mia opera, fa parte ancora una volta della propaganda politica, di demonizzare la cultura occidentale.
Nella supremazia che dai all’immagine, che ruolo ha la scrittura?
Peter Greenaway: La sceneggiatura è una sorta di cuscinetto, di zona di protezione e di conforto. Ma finora abbiamo visto 120 anni di testi illustrasti che non hanno nulla a che vedere con il cinema che è un esercizio completamente diverso rispetto all’illustrazione del testo. Tutti i film sono una narrazione che parte dalle parole e che non utilizza l’immagine come invece dovrebbe fare in quanto tipicità di questa forma d’arte. Quindi siamo tutti degli analfabeti sul piano delle immagini, sul piano visivo. Non è ancora nato un cinema in quanto tale. La maggior parte delle persone, e così i produttori, sono visivamente illetterati. Esempi sono le saghe di successo come Il signore degli anelli, o come Harry Potter, che partono da un testo letterario. Ho forti pregiudizi su ciò perché la mia formazione è nella pittura, sono diventato cineasta per puro accidente. Se pensiamo ai 25000 anni di storia della pittura, a quanti secoli sono già passati dal suo inizio, rispetto ai 120 anni del cinema, capiamo che il cinema è ancora nel suo stato embrionale, ancora nel grembo materno. Deve ancora nascere in quanto forma di espressione artistica. Io mi auguro che la rivoluzione delle tecnologie digitali possa far rinascere il cinema vero, il cinema in quanto cinema e sono abbastanza ottimista su questo. Il tentativo di fare un cinema testuale è destinato al fallimento totale perché il cinema non è lo strumento adatto per organizzare una struttura narrativa. Faccio un esempio. Se prendiamo la frase “Lei apre la finestra”, chiunque si forma nella mente l’immagine di una donna che apra una finestra. Come regista devo pensare a com’è questa donna che apre la finestra, a com’è fatto il tessuto delle tende, al cielo se ci sono le nuvole o se è sereno, a come è pettinata la donna, se ha la riga in mezzo o i capelli di un certo tipo, se il movimento è rapido o è lento. Inevitabilmente è destinato al fallimento ogni tentativo di tradurre il testo scritto, la letteratura in immagine perché non può avere la potenza che invece hanno le parole nel momento in cui sono fruite come tali. Il cinema di per sé insulta l’intelligenza del suo pubblico. Uno stampatore riproduce delle copie e non esiste un originale. Lo stesso vale per il cinema: dov’è la copia originale di Via col vento? È impossibile risalirci. È una domanda stupida. Il cinema è riproduzione in copie. Quest’anno ricorre l’anniversario della riforma di Martin Lutero, nel 1517. È stato un grande balzo in avanti quello che ha permesso alla riforma di radicarsi e di avere successo; e fu proprio la contemporaneità dell’introduzione delle presse di stampa che ha consentito di diffondere dall’oggi al domani il verbo di Lutero. In questo caso parliamo sia del testo, sia della possibilità di replicarlo, un’analogia evidente con la nostra era contemporanea e con le comunicazioni. Questo è quello che ha fatto subire la pausa d’arresto alla Chiesa cattolica. Prima era al centro del mondo. Con la riforma immediatamente tutti gli interessi hanno varcato le Alpi, si sono spostati verso le Fiandre, la Gran Bretagna e poi hanno attraversato l’Atlantico e il cattolicesimo è rimasto irrimediabilmente indietro. E stiamo assistendo a fenomeni analoghi con la Polonia che chiude WikiLeaks, la Cina che vieta l’accesso a internet. Chiunque si fermi e vuole restare radicato al passato di fatto nega la conoscenza e non può fare altro che arretrare. Il cinema oggi è morto, ognuno lo fruisce sullo smartphone in modo molto diverso da come faceva mio nonno che negli anni Cinquanta andava con gli amici, con una folla assolutamente chiassosa a vedere un film in una sala buia. La fruizione che c’è oggi fa sì che vediamo i film in modo frammentato, perché andiamo avanti e indietro. Il formato è diverso rispetto al grande schermo di una sala. Abbiamo a disposizione la televisione, il dvd, come anche lo smartphone e il tablet e tendenzialmente lo vediamo da soli. Il nostro rapporto con il cinema è cambiato, non è più passivo. Casablanca è un film noioso perché è statico, ma ora possiamo interferire con Casablanca. Adesso le possibilità che il cinema ci offre sono quelle di un movimento diverso rispetto al passato. Il futuro del cinema sarà sicuramente diverso. Non dobbiamo temerlo né essere nostalgici. Il cambiamento è anche a livello sociale. Il proletariato non esiste più neanche in Italia. L’ultimo gradino della scala sociale oggi è costituito dai migranti. Il socialismo ha avuto successo. Siamo tutti borghesi in un modo o nell’altro con tutti i confort che abbiamo.
Hai parlato di Fellini e di 8½. In generale qual è il tuo rapporto con il cinema e la cultura italiani?
Peter Greenaway: Nel cinema italiano il passaggio tra Rossellini e Fellini è stato straordinariamente veloce. In una generazione e mezza al massimo si è passati da un cinema con una preoccupazione socialista a un cinema che rivendicava il suo essere metaforico. Pasolini in realtà è apprezzato più che altro come poeta, mentre ha fatto un tipo di cinema molto trasandato. Il montaggio di Uccellacci e uccellini è molto sciatto e io lo posso dire perché sono anche un montatore. Ho sempre pensato che per Pasolini il socialismo fosse una posa, una sorta di facciata falsa, contrariamente al credere autentico che sicuramente Rossellini aveva. Pasolini era un intellettuale e quindi anche in Accattone è evidente come ci sia un distacco, uno sguardo tenuto a distanza. Rossellini era molto più onesto di un Visconti che invece era ipocrita. Il suo sguardo in Rocco e i suoi fratelli, sulla classe operaia, è quello di un intellettuale. Come mai è scomparso tutto, da La dolce vita e dopo L’ultimo imperatore. Che cosa ne avete fatto del vostro cinema? Come siete riusciti a distruggere questo ottimo fenomeno italiano? Da Berlusconi il profilo culturale dell’Italia è calato. Non c’è più tempo di pensare, bisogna agire. L’Italia è un paese che ama il Barocco in tutti gli eccessi delle sue forme artistiche e quindi apprezzate maggiormente di quanto possa fare la cultura puritana il mio amore per il Barocco. L’Italia è una nazione che è in grado di esprimersi in termini visivi molto più di quello che faccia la letteraria Gran Bretagna. Mi piace molto il fatto che voi state cinque ore a discutere col cameriere di cosa mangiare, di cosa ordinare. Segno che attribuite grande importanza al cibo che per gli inglesi è una sorta di pausa di rifornimento cui non si attribuisce grande valore emotivo. Per cui tendenzialmente la causa di morte in Gran Bretagna sono i tumori al tratto digestivo, mentre voi italiani morite più spesso d’infarto. Mi stupisce comunque che il vostro alimento preferito sia un alimento messicano come il pomodoro.