Il comune senso del pudore

Il comune senso del pudore

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Per l’omaggio all’attrice tedesca Dagmar Lassander è stato programmato ai Mille Occhi il film di Alberto Sordi del 1976, Il comune senso del pudore, in cui l’attore e regista romano metteva alla berlina l’ossessione per la pornografia nel mondo dello spettacolo dell’epoca.

L’ingroppata è artistica

In quattro episodi si raccontano i cambiamenti del senso del pudore alla fine degli anni Settanta e la capillare diffusione dell’erotismo nell’editoria e nel cinema. [sinossi – da Wikipedia]

Fa sempre piacere confermare come una delle caratteristiche più pregnanti relativamente all’esistenza e al funzionamento stesso dei festival cinematografici – la programmazione pensata come un corpus unico e non come un dirazzamento insensato di titoli incomunicanti – resista e sia giustamente centrale, mentre altrove sparisce, in una manifestazione come I Mille Occhi, giunti quest’anno alla 16esima edizione.
Il festival triestino, diretto da Sergio M. Germani, prende in questo 2017 il sottotitolo di Eros e Priapo, in omaggio alla recente pubblicazione dell’edizione integrale del libro di Gadda, ma contemporaneamente ne sviluppa e amplia il senso in molteplici direzioni.
Così, dopo la serata dedicata al porno di Wes Craven, La cugina del prete, si capisce ben presto come la programmazione di questo 2017 tenda a una rivalutazione/ripensamento/sguardo retroattivo e ri-presentato al pubblico dell’erotismo cinematografico. E l’omaggio all’attrice tedesca Dagmar Lassander, corpo nordico ed esotico/erotico di tanto cinema italiano degli anni Settanta (tornata anche di recente sui nostri schermi in Tommaso di Kim Rossi Stuart), va necessariamente in tal senso.

Non poteva mancare allora, sia per l’omaggio alla Lassander sia per la riflessione sull’erotismo, un film come Il comune senso del pudore con cui Alberto Sordi nel 1976 ci sbatteva in faccia il dominio ominoso che la pornografia aveva conquistato nell’ambito della società dello spettacolo.
Diviso in quattro capitoli (il primo con Sordi stesso che vaga insieme alla moglie per Roma trovando le sale cinematografiche tutte occupate da porno, il secondo con uno spaesato Cochi Ponzoni che fa lo scrittore di provincia assurto a direttore di una rivista osé e poi viene arrestato, il terzo con Claudia Cardinale che interpreta la moglie di un pretore nemico della stampa hard e che finisce per acquistarla di nascosto traendone giovamento nel privato, il quarto con Philippe Noiret nei panni di un produttore che vuole convincere a ogni costo la sua attrice – Dagmar Lassander – a interpretare una scena di sodomia), Il comune senso del pudore si pone ambiziosamente come ritratto di costume e come complesso film corale, in cui un episodio rimanda all’altro, con brevi riapparizioni di personaggi e di locandine di film. Basti pensare che il film intitolato La nipotina – le cui immagini oscene (un nonno che abusa della nipote) provocano un mancamento alla moglie di Sordi nel primo episodio – viene poi vietato dal pretore marito della Cardinale nella terza parte e si scopre essere stato prodotto proprio dal personaggio di Philippe Noiret nel quarto frammento.

In tal senso, a fronte a una scrittura abilissima – la sceneggiatura è scritta con il consueto collaboratore di Sordi, Rodolfo Sonego -, Sordi orchestra anche una regia simbolicamente impeccabile. Si pensi, tanto per fare un esempio, all’incipit: le riprese dall’alto di Roma arrivano a mostrare una piazzetta tipicamente capitolina, al cui centro troneggia una tavolata con Sordi stesso, sua moglie, un prete e amici e parenti; si festeggiano i vent’anni di matrimonio dei due e, tra canti sulle fettuccine e battute varie, ci si palesa nella sua innata simpatia l’eterno humus della romanità. Ma quando marito e moglie escono dal loro circondario per cercare un film da vedere al cinema, vediamo tutt’altra città, preda di manifesti di film erotici. La gigantografia di una locandina, quella di Poppea 76 (il film è inventato, ma non troppo lontano dal vero), è arrivata addirittura a coprire quasi interamente il Colosseo. Cosa ci vuole dire Sordi allora? Che la pornografia ha invaso completamente il territorio e, in qualche modo, uccide tutto, non solo i buoni costumi di una volta, ma anche la vita e la vitalità di una cultura antichissima come quella romana.
Certo, si tratta di esagerazioni moraleggianti, ma il punto è che la cosa viene mostrata – come detto – con una sorprendente precisione visiva, con un controllo assoluto della macchina-cinema. Anzi, Sordi è tanto preciso nella messa in scena – e tanto voglioso di raccontare e di mostrare – da arrivare all’eccesso, all’esagerazione: voci di personaggi che si accavallano, montaggio serrato e incalzante, sprazzi di visionarietà. E il tutto appare in fin dei conti molto coerente, visto che Il comune senso del pudore lo si potrebbe classificare come una sorta di ucronia cinematografica: il mondo conquistato da tette e culi.

In questa scrittura dell’eccesso Sordi ci sorprende anche per le diverse sfumature che riesce a dare al tema della pornografia: se nel primo episodio vi è una netta condanna, nel secondo c’è un tentativo di avvicinamento poi rigettato, quindi nel terzo c’è un vagheggiamento e un’attrazione segreta e, infine, nel quarto – vera apoteosi stilistica del film – si arriva persino all’adesione.
Come in fin dei conti è stato tipico di tutta la sua filmografia – e con spirito in certo modo democristiano – Sordi quindi arriva ad accettare questo nuovo mondo pornografico: il costume cambia e noi non possiamo far altro che finire per adeguarci. E dunque Il comune senso del pudore ha l’eccezionale e paradossale caratteristica di essere allo stesso tempo bigotto e disinibito, con e contro l’erotismo.
In più è anche un film che riesce a parodiare in maniera molto efficace il mondo cinematografico italiano dell’epoca, grazie per l’appunto al geniale quarto episodio, dove uno straripante Philippe Noiret riesce a convincere la diva Dagmar Lassander a farsi sodomizzare in scena grazie all’aiuto di una serie di esperti, tra cui Ugo Gregoretti. Costoro sintetizzano così il concetto: l’ingroppata è (ormai diventata) artistica e quindi si può – e si deve – fare. Un film dunque che ha anche la preziosa capacità di riflettere e di ironizzare su se stesso.
Altri tempi, altro cinema. E non si finirà mai di rimpiangerlo abbastanza.

Info
La pagina Wikipedia di Il comune senso del pudore.
Il sito de I Mille Occhi.
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