Promised Land

Promised Land

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Lucida e accorata analisi della storia degli Stati Uniti degli ultimi sessant’anni fatta a partire dall’icona Elvis Presley, Promised Land di Eugene Jarecki smaschera la tronfia e vacua macchina dello spettacolo americana, che da Las Vegas arriva fino a Trump. Alla Festa del Cinema di Roma.

That’s All Right, Mama

Quaranta anni dopo la morte di Elvis Presley, Promised Land sale sulla sua Rolls Royce del 1963 per un viaggio musicale attraverso il Paese che il re del rock ha lasciato troppo presto. Girato durante il periodo delle elezioni del 2016, il film cattura un ritratto sfumato del sogno americano in un momento critico della storia della Nazione. Ciò che emerge in questo viaggio lungo migliaia di chilometri sono i ritratti paralleli di un uomo e del suo Paese. Così come un ragazzo di provincia è diventato il Re e ha conosciuto una fine inattesa, il suo Paese, una volta diventato repubblica, si è trasformato in un impero e ora si trova ad affrontare un futuro incerto con a capo un Presidente che è quanto di più simile ci sia a un monarca. [sinossi]

Quando ci si accosta a film come Promised Land non si può far altro che ringraziare il dio del cinema – se esiste, se è mai esistito, se è ancora vivo – per il dono che ci è stato fatto. Un lavoro come quello di Eugene Jarecki – fratello del più noto Andrew, che nel 2003 diresse Una storia americana – Capturing the Friedmans – riesce infatti a restituire un ritratto stratificato e complesso degli Stati Uniti ricorrendo a una molteplicità di materiali (che vanno dal repertorio a riprese fatte ex novo), svolgendo un suo naturale intento divulgativo e riuscendo anche, con grande lungimiranza, a rintracciare nel passato le radici del presente e le anticipazioni del futuro (come ad esempio la vittoria di Trump, visto che le riprese sono state finite durante la campagna elettorale del 2016). Caratteristiche che permettono di vedere in questo contributo di Jarecki sia il talento di un brillante esponente dell’entertainment che quello – lucido e analitico – dello studioso della storia e dei costumi di un paese.

Presentato alla Festa del Cinema di Roma – dopo essere già passato alla scorsa edizione del Festival di Cannes – Promised Land è una diagnosi dell’America degli ultimi sessant’anni, fatta a partire dall’icona Elvis Presley. Jarecki ci racconta l’ascesa e la caduta del re del rock, sottolineando come la sua figura iconica sia quella che meglio di tutte ha incarnato lo spirito degli Stati Uniti nei decenni in cui l’America ha definitivamente conquistato il mondo grazie all’avvolgente e immateriale potere dello show business. E in un paese che ha combattuto per l’indipendenza dall’Inghilterra perché non voleva l’aristocrazia è decisamente curioso che siano state tributate reverenze regali a un suo concittadino, nato senza sangue blu da una famiglia piccolo-borghese, per non dire sotto-proletaria.
Un ragazzo che, cresciuto a Memphis, capitale della musica nera anche grazie alla sua particolare posizione geografica, ha trovato in quella città la linfa per alimentare il suo particolare stile, scaturigine della nascita del rock. D’altronde – come ci viene spiegato nel film – Elvis non ha inventato nulla, ha semplicemente dato voce alla musica afro-americana permettendogli di avere quello straordinario successo che non avrebbe avuto se a cantarla ci fossero stati solamente dei neri. Perciò, così come il rock nasce del blues e dal soul – dunque da generi tipicamente afro-americani – allo stesso modo la nazione americana si è alimentata della schiavitù dei neri per diventare una potenza mondiale. Ma non finisce qui: così come, ad un certo punto della sua carriera, Elvis si è ritrovato prima a Hollywood – e il suo talento musicale è stato messo da parte per far sì che The King diventasse un’icona dello spettacolo – poi a Las Vegas – dove, pur tornando a cantare, si è condannato alla parodia di se stesso – e in ultimo ha finito per rinchiudersi nel suo grottesco castello dorato di Graceland, allo stesso modo gli Stati Uniti hanno rinunciato alla loro primitiva connotazione democratica per trasformarsi in un impero sempre più sordo alle sollecitazioni esterne, fin tanto da rinchiudersi nel proprio guscio, arrogantemente convinti della loro superiorità. E giustappunto il volto inquietante di Trump – che fa capolino di tanto in tanto in Promised Land – è lì a dimostrarlo con tutta la sua ominosa evidenza. Così come è impressionante annotare che Elvis, al di là di qualche concerto in Canada, non si è mai esibito all’estero, soprattutto perché – si racconta – il suo dittatoriale manager, il Colonnello Tom Parker, non avrebbe potuto ottenere, per suoi problemi legali, un passaporto per viaggiare in Europa. E la vacua opulenza di Las Vegas, apoteosi urbana del denaro contornata dal deserto, è la perfetta metafora di questo isolamento dorato.

Jarecki racconta tutto questo partendo dall’immediatezza della sua trovata iniziale: girare gli Stati Uniti con la Rolls Royce appartenuta a Elvis a partire dal 1963. Auto inglese, per sua natura aristocratica, su cui fa salire diversi personaggi, tra cui Ethan Hawke e Alec Baldwin, e non pochi musicisti, che testimoniano il lascito ancora vivo della musica di Elvis. Un’auto non infallibile, che anzi si rompe un paio di volte e sulla cui scarsa affidabilità si ironizza più volte. E Jarecki stesso si mette in scena – e mette in scena il set – a dimostrazione di come il suo discorso sia esattamente contrario e opposto alla grande macchina dei sogni hollywoodiana: non c’è nessuna finzione possibile, non c’è nessun effetto speciale cui potersi aggrappare; lo spettatore non deve restare avvinto dalle grandi bugie dello spettacolo – ragnatela in cui sono rimasti impigliati prima Elvis e poi l’America stessa – ma è chiamato piuttosto a ragionare intorno ad esso.
L’impero delle immagini deve essere denudato ed esfoliato, come quando vediamo Ashton Kutcher lamentarsi di essere diventato così tanto famoso senza aver fatto abbastanza per assurgere a un tale livello di celebrità; e mentre lo dice qualcuno lo saluta e gli fa i complimenti.

Ma, al di là di tale radicale pessimismo, qualcosa rimane: negli ultimi minuti di Promised Land vediamo Elvis in una delle sue ultime esibizioni, grasso, sudato e balbettante, ritrovare un’insospettabile vitalità, lo vediamo ritrovare la grazia mentre canta Unchained Melody. Ed è da qui che – sembra dirci Jarecki – dobbiamo ripartire: dall’idea che, anche sotto il pesante cerone che ti impone la mascherata della vita, si può trovare – sia pure per un solo momento – la forza per tornare se stessi.

Info
La scheda di Promised Land sul sito della Festa del Cinema di Roma.
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